Avv. Giovanni Minauro - Il non vedente conserva la pensione di invalidità civile a prescindere dal suo reddito lavorativo(Cass, Sez. Lav., n. 15646/2012 - Cass. Sez. Un., n. 3814/2005). - Per regola previdenziale ormai consolidata, il diritto del non vedente al mantenimento della pensione di invalidità civile erogata ex l. 66/1962 viene subordinato alla persistenza del requisito reddituale previsto, in via generale, per tutti i trattamenti assistenziali di invalidità civile e, conseguentemente, revocato nel caso in cui tale requisito venga meno a causa dell'attività lavorativa intrapresa dall'invalido. E ciò, nonostante precise norme di legge, ossia gli artt. 68 l. 153/1969 e 8 del d.l. n. 463 del 1983, tuttora in vigore, prevedano espressamente che "le disposizioni di cui al secondo comma dell'articolo 10 del regio decreto-legge 14 aprile 1939 n.636 (secondo cui la pensione di invalidità viene soppressa quando la capacità di guadagno del pensionato cessi di essere inferiore ai limiti previsti dalla legge), non si applicano nei confronti dei ciechi che esercitano un'attività lavorativa", e sebbene la S.C., con pronuncia a Sezioni Unite n. 3814/2005, abbia espressamente confermato la piena vigenza tale eccezionale previsione, chiarendone, poi, limiti e portata normativa con la recente pronuncia n. 15646 del 18 settembre 2012.
Obiettivi di spending review autoritativamente attuati in ambito assistenziale ed in danno di una delle più deboli fasce sociali del Paese, quale quella dei non vedenti?
Sicuramente.
Bisogna, però, riconoscere che l'INPS ha sinora agito con il conforto della prevalente giurisprudenza di merito, la quale ha ritenuto che la regola dell'irrilevanza del reddito ai fini del riconoscimento della pensione di invalidità ai non vedenti riguarderebbe unicamente le pensioni erogate in regime obbligatorio (o contributivo) ex l. n. 222/1984 e, quindi, non consentirebbe di ravvisare, nel combinato disposto di cui ai sopra menzionati artt. 68 l. 153/1969 e 8 l. 463/1983, l'espressione di un generale principio di irrilevanza totale del requisito reddituale dei soggetti affetti da tale particolare tipo di invalidità, estensibile anche ai fini del conseguimento della pensione di invalidità civile (Cfr. Corte di Appello di Firenze Sez. lav., 27 maggio 2011, n. 622; Corte di Appello di Roma,26/01/2009, n.1574/2008; Corte di Appello di Napoli, Sez. Lav., n. 8478/10 del 17/12/2010; Trib. Napoli, Sez. Lav. n. 3175/08 del 12/11/2008; Tribunale Avellino, Sez. Lav., n. 789/10 del 31/03/2010; Corte di Appello di Salerno, Sez. Lav. n. 712/07 del 07/03/2007).
Tale orientamento giurisprudenziale si basa su un'errata interpretazione dei vincolanti principi enunciati nella sopra richiamata pronuncia a Cass. Sez. Un. n. 3814/2005 e, perciò, va al più presto abbandonato, soprattutto a causa della ingiustificata disparità di trattamento che ha sinora determinato tra "non vendenti lavoratori e titolari di pensione d'invalidità erogata in regime obbligatorio ex l dalla l. n. 222/1984" e "non vedenti neo assunti e già percettori di pensione d'invalidità civile ex l. n. 66 del 10/02/1962", relativamente alle possibilità di mantenimento, in caso di superamento del limite reddituale a causa del lavoro svolto, delle prestazioni assistenziali e/o previdenziali collegate alla loro particolare condizione personale di invalidità.
La comprensione degli argomenti che saranno di seguito trattati presuppone, però, la conoscenza di alcune nozioni di base e, dunque, innanzitutto la distinzione tra i due diversi tipi di pensione che la legge riconosce ai non vendenti, ossia tra pensione di invalidità civile e pensione o assegno di invalidità in regime obbligatorio, ambedue attualmente erogate dall'INPS.
Ebbene, la pensione di invalidità civile in favore dei ciechi è un trattamento di tipo assistenziale e risulta istituita dalla l. n. 66 del 10/02/1962, secondo cui (art. 7) "ogni cittadino affetto da cecità congenita o contratta in seguito a cause che non siano di guerra, infortunio sul lavoro o di servizio, ha diritto, in considerazione delle specifiche esigenze derivanti dalla minorazione, ad una pensione non reversibile qualora versi in stato di bisogno". La successiva disciplina ne ha poi disancorato la concessone dalla ricorrenza dello stato di bisogno e del requisito reddituale (artt. 68 l. 153/1969 e 8 l. 463/1983), escludendola, inoltre, con effetto dal 1° gennaio 1992, l'art. 3 della l. n. 407/1990 (come modif. dall'art. 12 della l. 412/1991), dal novero dei trattamenti assistenziali assoggettati al generale divieto di cumulo con altri trattamenti pensionistici diretti concessi a titolo di invalidità (INPS, causa di guerra, di servizio e di lavoro etc…).
La pensione (o assegno) di invalidità erogata in regime obbligatorio costituisce, invece, un trattamento di tipo previdenziale e, così come disciplinata dalla l. n. 222/1984, è concessa, in via generale, a tutti i lavoratori dipendenti e i lavoratori autonomi iscritti in particolari gestioni speciali (coltivatori diretti, coloni, mezzadri, imprenditori agricoli a titolo principale, artigiani e commercianti), la cui capacità di lavoro, in occupazioni confacenti alle loro attitudini, sia ridotta in modo permanente, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, a meno di un terzo. Essa, pertanto, spetta al non vedente che esercita un'attività lavorativa e risulta regolarmente assicurato ai fini previdenziali, qualora abbia contratto la cecità durante il rapporto assicurativo (o, nel caso in cui detta sua patologia preesisteva, allorquando si sia verificato un successivo aggravamento della stessa o siano sopraggiunte nuove infermità), abbia versato i contributi per almeno cinque anni (dei quali almeno tre nell'ultimo quinquennio) e sia riconosciuto cieco dall'ufficio medico legale dell'INPS.
Occorre poi sapere che, per effetto della regola generale di cui all'art. 10 d.l. n. 636/1939 e succ. modif. e integr., tutte le pensioni o assegni d'invalidità INPS, a prescindere dal tipo di infermità riconosciuto e dal tipo di trattamento, una volta concessi, possono essere soppressi quando il beneficiario riacquisti la capacità di lavoro o percepisca un reddito superiore a determinati limiti stabiliti dalla legge.
Orbene, come sopra accennato, detta ultima regola, in base al combinato disposto di cui agli artt. 68 l. 153/1969 e 8 l. 463/1983 (secondo cui "le disposizioni di cui al secondo comma dell'articolo 10 del regio decreto-legge 14 aprile 1939, n. 636, non si applicano nei confronti dei ciechi che esercitano un'attività lavorativa"), non può trovare applicazione nei confronti dei non vedenti che hanno un‘occupazione lavorativa e che siano titolari di pensione d'invalidità civile o di pensione d'invalidità corrisposta in regime obbligatorio.
La giurisprudenza, difatti, in primo momento, senza operare alcuna distinzione tra pensione di invalidità civile e pensione di invalidità erogata in regime obbligatorio, ha ritenuto che la disposizione derogatoria de qua, intesa quale espressione di un generale principio di irrilevanza del reddito del non vedente ai fini della concessione della pensione di invalidità, potesse consentire allo stesso invalido di ottenere e mantenere, indipendentemente dal reddito percepito ed all'attività lavorativa esercitata, il diritto a conseguire la pensione di invalidità (Cfr. Cass., Sez. Lav., n. 8310/1999; n. 3359/2001 e n. 10609/2002), pronunciandosi in modo contrastante unicamente con riferimento anche all'integrazione al minimo della stessa pensione ex art. 6 l. 463/1983, non sempre ritenuta spettante (Cfr. Cass., Sez. Lav., n. 5252/1988 e n. 3027/1998).
Orbene, la S.C., con la più volte menzionata pronuncia a Sezioni Unite n. 3814/2005, nel dirimere tale ultimo contrasto giurisprudenziale, venutosi a creare - si ripete - soltanto in ordine alla rilevanza o meno del reddito del non vedente ai fini dell'ottenimento dell'integrazione al minimo della pensione, ha enunciato i seguenti vincolanti principi:
a) - l'istituto dell'integrazione al minimo delle pensioni a carico dell'INPS in regime obbligatorio, così come previsto dall'art. 6 l. n. 463 del 1983, serve ad assicurare, secondo la previsione dell'art. 38 Cost., i mezzi adeguati alle esigenze di vita del lavoratore e della sua famiglia, quando a tale scopo non sia sufficiente la contribuzione previdenziale accreditata, e costituisce un'erogazione ulteriore, priva di base contributiva, giustificata dallo stato di bisogno ed ispirata al principio di solidarietà di cui all'art. 2 Cost.;
b) - con riguardo all'integrazione al minimo della pensione di invalidità, l'esistenza di redditi accanto alla pensione è quindi idonea a privare l'integrazione del suo presupposto, quali che siano nelle concrete fattispecie gli elementi costitutivi ed il regime della pensione stessa;
c) - del tutto diversi sono i fondamenti giustificativi delle norme che dispongono la conservazione del trattamento pensionistico malgrado la carenza sopravvenuta di uno dei presupposti, dato che in tale materia la discrezionalità del legislatore è più ampia, sussistendo soltanto il limite della ragionevolezza degli interventi normativi capaci di cancellare posizioni acquisite dal cittadino;
d) in particolare, "il legislatore ha derogato, in favore dei non vedenti, al generale divieto di cumulare la pensione di invalidità civile col reddito, anche elevato"; la conservazione della pensione a favore di questi invalidi è stabilita dal combinato disposto della L. n. 153 del 1969, art. 68, comma 1, e D.L. n. 463 del 1983, art. 8, comma 1 bis, allo scopo di non distogliere l'invalido dall'apprendimento e dall'esercizio di un'attività lavorativa (così, testualmente, si legge nella pronuncia in esame);
e) - le speciali finalità di tutela del cittadino pensionato e del suo inserimento nelle attività lavorative malgrado la minorazione fisica impediscono, tuttavia, di ravvisare nel combinato disposto ora citato l'espressione di un generale principio di irrilevanza totale del requisito reddituale nel regime della pensione di invalidità ai non vedenti e di estendere questo asserito principio all'istituto dell'integrazione al minimo delle pensioni, soggetto invece a propria ragion d'essere e volto all'attuazione degli obiettivi costituzionale di cui agli art. 2 e 38 Cost.
Ebbene, la successiva giurisprudenza di merito - come sopra accennato - nell'interpretare i suddetti arresti della S.C., ha inopinatamente ritenuto che il principio dell'irrilevanza del reddito ai fini della conservazione della pensione (definito dalla S.C. nella citata pronuncia di "specialissima e stretta interpretazione") riguarderebbe unicamente le pensioni erogate dall'INPS in regime obbligatorio e, sebbene stabilito "allo scopo di non distogliere l'invalido dall'apprendimento e dall'esercizio di un'attività lavorativa", non consentirebbe di ravvisare, nel combinato disposto di cui agli artt. 68 l. 153 /1969 e 8 co. bis l. 46371983, l'espressione di una regola generale di totale irrilevanza del reddito del non vedente, estensibile anche alle pensioni di invalidità civile erogate ex art. art. 7 l. 66/1962(Cfr. cit. Corte di Appello di Firenze Sez. lav., 27 maggio 2011, n. 622; Corte di Appello di Roma,26/01/2009, n.1574/2008; Corte di Appello di Napoli, Sez. Lav., n. 8478/10 del 17/12/2010).
Tale orientamento giurisprudenziale è frutto - si ripete - di una lettura errata e del tutto distorta della più volte menzionata Cass. Sez. Un. 3814/2005.
In tale ultima pronuncia, difatti, la S.C. afferma unicamente che la deroga alle disposizioni del secondo comma dell'art. 10 del R.D.L. 14/4/1939 n. 636 (che prevedono la perdita della pensione per superamento dei limiti reddituali o per riacquisto della capacità di guadagno degli invalidi), posta in favore dei ciechi dall'art. 68 della l. n. 153/1969, è contenuta in una norma, di specialissima e di stretta interpretazione, che trova la sua ratio esclusivamente nell'esigenza di non colpire ulteriormente, con l'eliminazione di una prestazione già acquisita, il cieco pensionato e di evitare che il medesimo sia indotto ad abbandonare l'attività lavorativa, per non perdere la pensione d'invalidità.
Tale ratio - affermano le Sezioni Unite della S.C. nella sentenza in esame - non si rinviene nell'istituto dell'integrazione al minimo, che riguarda le pensioni a carico dell'Inps in regime obbligatorio e risponde all'esigenza di assicurare, secondo la previsione dell'art. 38 Cost., i mezzi adeguati alle necessità di vita del lavoratore e della sua famiglia, quando a tale scopo non sia sufficiente la contribuzione previdenziale accreditata, in attuazione del principio di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost.
E', dunque, la diversità di ratio esistente tra la deroga di cui al cit. art. 68 della l. n. 153/1969 e l'istituto dell'integrazione al minimo, a rendere non estensibile a tale ultimo istituto e, quindi, di "specialissima e stretta interpretazione", il suddetto principio dell'irrilevanza del reddito dei non vedenti.
Non a caso, nella pronuncia de qua, la S.C., individuando nell'esigenza di garantire la conservazione dei cc.dd. iura quesita l'obiettivo perseguito del legislatore con l'art. 68 cit. l. n. 153/1969, afferma, testualmente: "A questa esigenza si ispira il legislatore, il quale deroga, in favore dei ciechi, al generale divieto di cumulare la pensione di invalidità civile col reddito, anche elevato. La conservazione della pensione a favore di questi invalidi è stabilita dal combinato disposto degli artt. 68, primo comma, l. n. 153 del 1969 e 8, comma 1 bis, d.l. n. 463 del 1983 allo scopo di non distogliere l'invalido dall'apprendimento e dall'esercizio di un'attività lavorativa, come esattamente si nota nelle citate sentenze nn. 5252 del 1988 e 3027 del 1998. Le speciali finalità di tutela del cittadino pensionato e del suo inserimento nelle attività lavorative malgrado la minorazione fisica impediscono di ravvisare nel combinato disposto ora citato l'espressione di un generale principio di irrilevanza totale del requisito reddituale nel regime della pensione di invalidità ai ciechi e di estendere questo asserito principio all'istituto - soggetto a propria ragion d'essere e capace di propri specifici effetti - dell'integrazione al minimo delle pensioni. Perciò Cass. n. 5252 del 1988 definisce la regola dell'art. 68 cit. come "specialissima e di stretta interpretazione".
In tal senso, ossia nel senso - come chiaramente dice la S.C. - della non estensibilità del principio dell'irrilevanza del reddito del non vedente anche all'istituto dell'integrazione al minimo, va intesa, dunque, la suddetta espressione "regola specialissima e di strettissima interpretazione" usata bella pronuncia in esame, e non nel senso di escludere l'operatività di detto principio con riferimento alle pensioni di invalidità civili e di ritenerlo operante soltanto per le pensioni erogate dall'INPS in regime obbligatorio.
Tale ultima interpretazione risulta confermata, infatti, oltre che nelle successive pronunce della S.C. n. 21579/2006 e n. 8914/2007, nelle quali non viene operata alcuna distinzione tra pensioni di invalidità civile e pensioni di invalidità in regime obbligatorio, soprattutto nella recente pronuncia della stessa S.C. n. 15646 del 18 settembre 2012 (relativa a fattispecie di pensione d'invalidità civile erogata a non vedente ex l. 66/1962 ed illegittimamente revocata per il superamento del limite reddituale dovuto all'assunzione dello stesso invalido alle dipendenze della P.A.), nella quale, conformemente ai principi contenuti nella precedete Cass. Sez. Un. n. 3814/2005, viene enunciato il seguente principio di diritto: "La particolare disciplina prevista dalla L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 68, da leggersi in senso costituzionalmente orientato (artt. 2, 3, 4 e 38 Cost.), derogando alla generale normativa posta dal R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636, art. 10 (secondo cui la pensione d'invalidità è soppressa quando la capacità di guadagno del pensionato non è più inferiore ai minimi di legge), esclude - per quanto attiene unicamente alla fase successiva al riconoscimento del trattamento pensionistico - che la pensione di invalidità già riconosciuta all'assicurato in ragione della sua cecità possa essergli revocata, quali che siano i mutati limiti della sua capacità di lavoro e di guadagno".
Difatti, se la ratio del principio dell'irrilevanza del reddito ai fini della conservazione della pensione è da rinvenirsi nell'esigenza di non distogliere l'invalido, per il timore di perdere la pensione, dall'apprendimento e dall'esercizio di un'attività lavorativa, non si vede perché tale esigenza debba ricorrere allorquando il cieco già lavori e percepisca un reddito e non anche quando, non lavorando ed essendo unicamente titolare di una pensione di invalidità civile, cominci a percepire reddito attraverso la conquista di un posto di lavoro.
Anche in tale ultimo caso, difatti, il non vedente, per la paura di perdere il trattamento assistenziale acquisito e su cui faceva affidamento, potrebbe essere distolto dall'intraprendere l'attività lavorativa perché produttiva di un reddito superiore a quello stabilito per il mantenimento dello stesso trattamento. Anzi, a rigor di logica, proprio allorquando il non vendente riesce ad affacciarsi al mondo del lavoro ed a realizzarsi come persona capace di produrre reddito, nonostante la sua grave infermità, dovrebbe ricorrere maggiormente l'esigenza di non distoglierlo dall'attività lavorativa intrapresa.
D'altro canto, è proprio in applicazione di detto principio di totale irrilevanza del reddito di non vedenti ai fini della pensione di invalidità, che il legislatore ha previsto, in favore degli stessi, anche la speciale deroga al generale divieto di cumulo della pensione di invalidità civile con gli altri trattamenti previdenziali ed assistenziali (V. l'art. 3 co. 1 della l. n. 407/1990, come integrato dall'art. 12 della l. n,. 412/1991).
In definitiva, il sopra criticato orientamento della giurisprudenza di merito ha sinora comportato, sotto il profilo pratico, un'inammissibile ed ingiustificata disparità di trattamento tra cittadini che si trovano nella medesima condizione esistenziale di invalidità e tutti meritevoli della particolare tutela assistenziale loro accordata proprio in considerazione di detta loro condizione ed al fine di non distoglierli dall'apprendimento e dall'esercizio di un'attività lavorativa. Difatti, ai ciechi civili neo assunti e percettori a causa del lavoro svolto di un reddito di importo superiore a quello stabilito in via generale per la concessione della pensione di invalidità civile è stato riservato, sino ad oggi, un trattamento meno favorevole, sotto l'aspetto economico-assistenziale e di tutela del diritto al lavoro, rispetto a quello concesso ai ciechi già lavoratori, poiché soltanto questi ultimi, a differenza dei primi, hanno potuto godere, indipendentemente dal reddito percepito, della pensione di invalidità in regime obbligatorio, ossia di un trattamento che, pur avendo natura previdenziale (risultando assoggettato alla ricorrenza dei requisiti contributivi di cui alla cit. l. 222/1984), trova, in ogni caso, giustificazione nella stessa causa invalidante che legittima l'erogazione della pensione di invalidità civile ex art. 7 l. 66/1962 (risultando, peraltro, con quest'ultima cumulabile ex l'art. 3 co. 1 cit. l. n. 407/1990 e succ. modif. e integr.).
Si auspica, pertanto, che, per il futuro, la giurisprudenza di merito interpreti i vincolanti principi contenuti in Cass. Sez. Un. n. 3814/2005 nel senso indicato dalla stessa S.C. nella sopra menzionata pronuncia n. 15646/2012 e, ritornando sui propri passi, consenta ai non vedenti di poter continuare a godere, indipendentemente dal reddito da lavoro percepito, della pensione di invalidità civile, ossia di un trattamento assistenziale loro riconosciuto dall'ordinamento in considerazione della particolare condizione invalidante in cui sono incolpevolmente costretti a vivere per triste sventura umana.
Obiettivi di spending review autoritativamente attuati in ambito assistenziale ed in danno di una delle più deboli fasce sociali del Paese, quale quella dei non vedenti?
Sicuramente.
Bisogna, però, riconoscere che l'INPS ha sinora agito con il conforto della prevalente giurisprudenza di merito, la quale ha ritenuto che la regola dell'irrilevanza del reddito ai fini del riconoscimento della pensione di invalidità ai non vedenti riguarderebbe unicamente le pensioni erogate in regime obbligatorio (o contributivo) ex l. n. 222/1984 e, quindi, non consentirebbe di ravvisare, nel combinato disposto di cui ai sopra menzionati artt. 68 l. 153/1969 e 8 l. 463/1983, l'espressione di un generale principio di irrilevanza totale del requisito reddituale dei soggetti affetti da tale particolare tipo di invalidità, estensibile anche ai fini del conseguimento della pensione di invalidità civile (Cfr. Corte di Appello di Firenze Sez. lav., 27 maggio 2011, n. 622; Corte di Appello di Roma,26/01/2009, n.1574/2008; Corte di Appello di Napoli, Sez. Lav., n. 8478/10 del 17/12/2010; Trib. Napoli, Sez. Lav. n. 3175/08 del 12/11/2008; Tribunale Avellino, Sez. Lav., n. 789/10 del 31/03/2010; Corte di Appello di Salerno, Sez. Lav. n. 712/07 del 07/03/2007).
Tale orientamento giurisprudenziale si basa su un'errata interpretazione dei vincolanti principi enunciati nella sopra richiamata pronuncia a Cass. Sez. Un. n. 3814/2005 e, perciò, va al più presto abbandonato, soprattutto a causa della ingiustificata disparità di trattamento che ha sinora determinato tra "non vendenti lavoratori e titolari di pensione d'invalidità erogata in regime obbligatorio ex l dalla l. n. 222/1984" e "non vedenti neo assunti e già percettori di pensione d'invalidità civile ex l. n. 66 del 10/02/1962", relativamente alle possibilità di mantenimento, in caso di superamento del limite reddituale a causa del lavoro svolto, delle prestazioni assistenziali e/o previdenziali collegate alla loro particolare condizione personale di invalidità.
La comprensione degli argomenti che saranno di seguito trattati presuppone, però, la conoscenza di alcune nozioni di base e, dunque, innanzitutto la distinzione tra i due diversi tipi di pensione che la legge riconosce ai non vendenti, ossia tra pensione di invalidità civile e pensione o assegno di invalidità in regime obbligatorio, ambedue attualmente erogate dall'INPS.
Ebbene, la pensione di invalidità civile in favore dei ciechi è un trattamento di tipo assistenziale e risulta istituita dalla l. n. 66 del 10/02/1962, secondo cui (art. 7) "ogni cittadino affetto da cecità congenita o contratta in seguito a cause che non siano di guerra, infortunio sul lavoro o di servizio, ha diritto, in considerazione delle specifiche esigenze derivanti dalla minorazione, ad una pensione non reversibile qualora versi in stato di bisogno". La successiva disciplina ne ha poi disancorato la concessone dalla ricorrenza dello stato di bisogno e del requisito reddituale (artt. 68 l. 153/1969 e 8 l. 463/1983), escludendola, inoltre, con effetto dal 1° gennaio 1992, l'art. 3 della l. n. 407/1990 (come modif. dall'art. 12 della l. 412/1991), dal novero dei trattamenti assistenziali assoggettati al generale divieto di cumulo con altri trattamenti pensionistici diretti concessi a titolo di invalidità (INPS, causa di guerra, di servizio e di lavoro etc…).
La pensione (o assegno) di invalidità erogata in regime obbligatorio costituisce, invece, un trattamento di tipo previdenziale e, così come disciplinata dalla l. n. 222/1984, è concessa, in via generale, a tutti i lavoratori dipendenti e i lavoratori autonomi iscritti in particolari gestioni speciali (coltivatori diretti, coloni, mezzadri, imprenditori agricoli a titolo principale, artigiani e commercianti), la cui capacità di lavoro, in occupazioni confacenti alle loro attitudini, sia ridotta in modo permanente, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, a meno di un terzo. Essa, pertanto, spetta al non vedente che esercita un'attività lavorativa e risulta regolarmente assicurato ai fini previdenziali, qualora abbia contratto la cecità durante il rapporto assicurativo (o, nel caso in cui detta sua patologia preesisteva, allorquando si sia verificato un successivo aggravamento della stessa o siano sopraggiunte nuove infermità), abbia versato i contributi per almeno cinque anni (dei quali almeno tre nell'ultimo quinquennio) e sia riconosciuto cieco dall'ufficio medico legale dell'INPS.
Occorre poi sapere che, per effetto della regola generale di cui all'art. 10 d.l. n. 636/1939 e succ. modif. e integr., tutte le pensioni o assegni d'invalidità INPS, a prescindere dal tipo di infermità riconosciuto e dal tipo di trattamento, una volta concessi, possono essere soppressi quando il beneficiario riacquisti la capacità di lavoro o percepisca un reddito superiore a determinati limiti stabiliti dalla legge.
Orbene, come sopra accennato, detta ultima regola, in base al combinato disposto di cui agli artt. 68 l. 153/1969 e 8 l. 463/1983 (secondo cui "le disposizioni di cui al secondo comma dell'articolo 10 del regio decreto-legge 14 aprile 1939, n. 636, non si applicano nei confronti dei ciechi che esercitano un'attività lavorativa"), non può trovare applicazione nei confronti dei non vedenti che hanno un‘occupazione lavorativa e che siano titolari di pensione d'invalidità civile o di pensione d'invalidità corrisposta in regime obbligatorio.
La giurisprudenza, difatti, in primo momento, senza operare alcuna distinzione tra pensione di invalidità civile e pensione di invalidità erogata in regime obbligatorio, ha ritenuto che la disposizione derogatoria de qua, intesa quale espressione di un generale principio di irrilevanza del reddito del non vedente ai fini della concessione della pensione di invalidità, potesse consentire allo stesso invalido di ottenere e mantenere, indipendentemente dal reddito percepito ed all'attività lavorativa esercitata, il diritto a conseguire la pensione di invalidità (Cfr. Cass., Sez. Lav., n. 8310/1999; n. 3359/2001 e n. 10609/2002), pronunciandosi in modo contrastante unicamente con riferimento anche all'integrazione al minimo della stessa pensione ex art. 6 l. 463/1983, non sempre ritenuta spettante (Cfr. Cass., Sez. Lav., n. 5252/1988 e n. 3027/1998).
Orbene, la S.C., con la più volte menzionata pronuncia a Sezioni Unite n. 3814/2005, nel dirimere tale ultimo contrasto giurisprudenziale, venutosi a creare - si ripete - soltanto in ordine alla rilevanza o meno del reddito del non vedente ai fini dell'ottenimento dell'integrazione al minimo della pensione, ha enunciato i seguenti vincolanti principi:
a) - l'istituto dell'integrazione al minimo delle pensioni a carico dell'INPS in regime obbligatorio, così come previsto dall'art. 6 l. n. 463 del 1983, serve ad assicurare, secondo la previsione dell'art. 38 Cost., i mezzi adeguati alle esigenze di vita del lavoratore e della sua famiglia, quando a tale scopo non sia sufficiente la contribuzione previdenziale accreditata, e costituisce un'erogazione ulteriore, priva di base contributiva, giustificata dallo stato di bisogno ed ispirata al principio di solidarietà di cui all'art. 2 Cost.;
b) - con riguardo all'integrazione al minimo della pensione di invalidità, l'esistenza di redditi accanto alla pensione è quindi idonea a privare l'integrazione del suo presupposto, quali che siano nelle concrete fattispecie gli elementi costitutivi ed il regime della pensione stessa;
c) - del tutto diversi sono i fondamenti giustificativi delle norme che dispongono la conservazione del trattamento pensionistico malgrado la carenza sopravvenuta di uno dei presupposti, dato che in tale materia la discrezionalità del legislatore è più ampia, sussistendo soltanto il limite della ragionevolezza degli interventi normativi capaci di cancellare posizioni acquisite dal cittadino;
d) in particolare, "il legislatore ha derogato, in favore dei non vedenti, al generale divieto di cumulare la pensione di invalidità civile col reddito, anche elevato"; la conservazione della pensione a favore di questi invalidi è stabilita dal combinato disposto della L. n. 153 del 1969, art. 68, comma 1, e D.L. n. 463 del 1983, art. 8, comma 1 bis, allo scopo di non distogliere l'invalido dall'apprendimento e dall'esercizio di un'attività lavorativa (così, testualmente, si legge nella pronuncia in esame);
e) - le speciali finalità di tutela del cittadino pensionato e del suo inserimento nelle attività lavorative malgrado la minorazione fisica impediscono, tuttavia, di ravvisare nel combinato disposto ora citato l'espressione di un generale principio di irrilevanza totale del requisito reddituale nel regime della pensione di invalidità ai non vedenti e di estendere questo asserito principio all'istituto dell'integrazione al minimo delle pensioni, soggetto invece a propria ragion d'essere e volto all'attuazione degli obiettivi costituzionale di cui agli art. 2 e 38 Cost.
Ebbene, la successiva giurisprudenza di merito - come sopra accennato - nell'interpretare i suddetti arresti della S.C., ha inopinatamente ritenuto che il principio dell'irrilevanza del reddito ai fini della conservazione della pensione (definito dalla S.C. nella citata pronuncia di "specialissima e stretta interpretazione") riguarderebbe unicamente le pensioni erogate dall'INPS in regime obbligatorio e, sebbene stabilito "allo scopo di non distogliere l'invalido dall'apprendimento e dall'esercizio di un'attività lavorativa", non consentirebbe di ravvisare, nel combinato disposto di cui agli artt. 68 l. 153 /1969 e 8 co. bis l. 46371983, l'espressione di una regola generale di totale irrilevanza del reddito del non vedente, estensibile anche alle pensioni di invalidità civile erogate ex art. art. 7 l. 66/1962(Cfr. cit. Corte di Appello di Firenze Sez. lav., 27 maggio 2011, n. 622; Corte di Appello di Roma,26/01/2009, n.1574/2008; Corte di Appello di Napoli, Sez. Lav., n. 8478/10 del 17/12/2010).
Tale orientamento giurisprudenziale è frutto - si ripete - di una lettura errata e del tutto distorta della più volte menzionata Cass. Sez. Un. 3814/2005.
In tale ultima pronuncia, difatti, la S.C. afferma unicamente che la deroga alle disposizioni del secondo comma dell'art. 10 del R.D.L. 14/4/1939 n. 636 (che prevedono la perdita della pensione per superamento dei limiti reddituali o per riacquisto della capacità di guadagno degli invalidi), posta in favore dei ciechi dall'art. 68 della l. n. 153/1969, è contenuta in una norma, di specialissima e di stretta interpretazione, che trova la sua ratio esclusivamente nell'esigenza di non colpire ulteriormente, con l'eliminazione di una prestazione già acquisita, il cieco pensionato e di evitare che il medesimo sia indotto ad abbandonare l'attività lavorativa, per non perdere la pensione d'invalidità.
Tale ratio - affermano le Sezioni Unite della S.C. nella sentenza in esame - non si rinviene nell'istituto dell'integrazione al minimo, che riguarda le pensioni a carico dell'Inps in regime obbligatorio e risponde all'esigenza di assicurare, secondo la previsione dell'art. 38 Cost., i mezzi adeguati alle necessità di vita del lavoratore e della sua famiglia, quando a tale scopo non sia sufficiente la contribuzione previdenziale accreditata, in attuazione del principio di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost.
E', dunque, la diversità di ratio esistente tra la deroga di cui al cit. art. 68 della l. n. 153/1969 e l'istituto dell'integrazione al minimo, a rendere non estensibile a tale ultimo istituto e, quindi, di "specialissima e stretta interpretazione", il suddetto principio dell'irrilevanza del reddito dei non vedenti.
Non a caso, nella pronuncia de qua, la S.C., individuando nell'esigenza di garantire la conservazione dei cc.dd. iura quesita l'obiettivo perseguito del legislatore con l'art. 68 cit. l. n. 153/1969, afferma, testualmente: "A questa esigenza si ispira il legislatore, il quale deroga, in favore dei ciechi, al generale divieto di cumulare la pensione di invalidità civile col reddito, anche elevato. La conservazione della pensione a favore di questi invalidi è stabilita dal combinato disposto degli artt. 68, primo comma, l. n. 153 del 1969 e 8, comma 1 bis, d.l. n. 463 del 1983 allo scopo di non distogliere l'invalido dall'apprendimento e dall'esercizio di un'attività lavorativa, come esattamente si nota nelle citate sentenze nn. 5252 del 1988 e 3027 del 1998. Le speciali finalità di tutela del cittadino pensionato e del suo inserimento nelle attività lavorative malgrado la minorazione fisica impediscono di ravvisare nel combinato disposto ora citato l'espressione di un generale principio di irrilevanza totale del requisito reddituale nel regime della pensione di invalidità ai ciechi e di estendere questo asserito principio all'istituto - soggetto a propria ragion d'essere e capace di propri specifici effetti - dell'integrazione al minimo delle pensioni. Perciò Cass. n. 5252 del 1988 definisce la regola dell'art. 68 cit. come "specialissima e di stretta interpretazione".
In tal senso, ossia nel senso - come chiaramente dice la S.C. - della non estensibilità del principio dell'irrilevanza del reddito del non vedente anche all'istituto dell'integrazione al minimo, va intesa, dunque, la suddetta espressione "regola specialissima e di strettissima interpretazione" usata bella pronuncia in esame, e non nel senso di escludere l'operatività di detto principio con riferimento alle pensioni di invalidità civili e di ritenerlo operante soltanto per le pensioni erogate dall'INPS in regime obbligatorio.
Tale ultima interpretazione risulta confermata, infatti, oltre che nelle successive pronunce della S.C. n. 21579/2006 e n. 8914/2007, nelle quali non viene operata alcuna distinzione tra pensioni di invalidità civile e pensioni di invalidità in regime obbligatorio, soprattutto nella recente pronuncia della stessa S.C. n. 15646 del 18 settembre 2012 (relativa a fattispecie di pensione d'invalidità civile erogata a non vedente ex l. 66/1962 ed illegittimamente revocata per il superamento del limite reddituale dovuto all'assunzione dello stesso invalido alle dipendenze della P.A.), nella quale, conformemente ai principi contenuti nella precedete Cass. Sez. Un. n. 3814/2005, viene enunciato il seguente principio di diritto: "La particolare disciplina prevista dalla L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 68, da leggersi in senso costituzionalmente orientato (artt. 2, 3, 4 e 38 Cost.), derogando alla generale normativa posta dal R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636, art. 10 (secondo cui la pensione d'invalidità è soppressa quando la capacità di guadagno del pensionato non è più inferiore ai minimi di legge), esclude - per quanto attiene unicamente alla fase successiva al riconoscimento del trattamento pensionistico - che la pensione di invalidità già riconosciuta all'assicurato in ragione della sua cecità possa essergli revocata, quali che siano i mutati limiti della sua capacità di lavoro e di guadagno".
Difatti, se la ratio del principio dell'irrilevanza del reddito ai fini della conservazione della pensione è da rinvenirsi nell'esigenza di non distogliere l'invalido, per il timore di perdere la pensione, dall'apprendimento e dall'esercizio di un'attività lavorativa, non si vede perché tale esigenza debba ricorrere allorquando il cieco già lavori e percepisca un reddito e non anche quando, non lavorando ed essendo unicamente titolare di una pensione di invalidità civile, cominci a percepire reddito attraverso la conquista di un posto di lavoro.
Anche in tale ultimo caso, difatti, il non vedente, per la paura di perdere il trattamento assistenziale acquisito e su cui faceva affidamento, potrebbe essere distolto dall'intraprendere l'attività lavorativa perché produttiva di un reddito superiore a quello stabilito per il mantenimento dello stesso trattamento. Anzi, a rigor di logica, proprio allorquando il non vendente riesce ad affacciarsi al mondo del lavoro ed a realizzarsi come persona capace di produrre reddito, nonostante la sua grave infermità, dovrebbe ricorrere maggiormente l'esigenza di non distoglierlo dall'attività lavorativa intrapresa.
D'altro canto, è proprio in applicazione di detto principio di totale irrilevanza del reddito di non vedenti ai fini della pensione di invalidità, che il legislatore ha previsto, in favore degli stessi, anche la speciale deroga al generale divieto di cumulo della pensione di invalidità civile con gli altri trattamenti previdenziali ed assistenziali (V. l'art. 3 co. 1 della l. n. 407/1990, come integrato dall'art. 12 della l. n,. 412/1991).
In definitiva, il sopra criticato orientamento della giurisprudenza di merito ha sinora comportato, sotto il profilo pratico, un'inammissibile ed ingiustificata disparità di trattamento tra cittadini che si trovano nella medesima condizione esistenziale di invalidità e tutti meritevoli della particolare tutela assistenziale loro accordata proprio in considerazione di detta loro condizione ed al fine di non distoglierli dall'apprendimento e dall'esercizio di un'attività lavorativa. Difatti, ai ciechi civili neo assunti e percettori a causa del lavoro svolto di un reddito di importo superiore a quello stabilito in via generale per la concessione della pensione di invalidità civile è stato riservato, sino ad oggi, un trattamento meno favorevole, sotto l'aspetto economico-assistenziale e di tutela del diritto al lavoro, rispetto a quello concesso ai ciechi già lavoratori, poiché soltanto questi ultimi, a differenza dei primi, hanno potuto godere, indipendentemente dal reddito percepito, della pensione di invalidità in regime obbligatorio, ossia di un trattamento che, pur avendo natura previdenziale (risultando assoggettato alla ricorrenza dei requisiti contributivi di cui alla cit. l. 222/1984), trova, in ogni caso, giustificazione nella stessa causa invalidante che legittima l'erogazione della pensione di invalidità civile ex art. 7 l. 66/1962 (risultando, peraltro, con quest'ultima cumulabile ex l'art. 3 co. 1 cit. l. n. 407/1990 e succ. modif. e integr.).
Si auspica, pertanto, che, per il futuro, la giurisprudenza di merito interpreti i vincolanti principi contenuti in Cass. Sez. Un. n. 3814/2005 nel senso indicato dalla stessa S.C. nella sopra menzionata pronuncia n. 15646/2012 e, ritornando sui propri passi, consenta ai non vedenti di poter continuare a godere, indipendentemente dal reddito da lavoro percepito, della pensione di invalidità civile, ossia di un trattamento assistenziale loro riconosciuto dall'ordinamento in considerazione della particolare condizione invalidante in cui sono incolpevolmente costretti a vivere per triste sventura umana.
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