Le vessazioni e le discriminazione subite sul posto di lavoro vanno risarcite anche quando manca la prova per configurare il reato di mobbing. E' quanto afferma la Corte di Cassazione con sentenza n.18927/2012 occupandosi di un caso in cui pur non essendo possibile individuare l'esistenza di un vero e proprio intento persecutorio, idoneo a poter configurare un'ipotesi di mobbing, ha ritenuto che comunque alcuni singoli comportamenti del datore di lavoro, messi in qualche modo in relazione con altri comportamenti denunciati, potessero considerarsi vessatori e mortificanti per il dipendente.
Con questa motivazione la Corte ha dato ragione a una farmacista che aveva chiesto di essere risarcita per i danni subiti in quanto ammalatasi di depressione grave a causa di continue angherie subite dal titolare e dai colleghi. La donna, che era la più anziana del gruppo, era stata infatti presa di mira poichè non era in grado di usare il sistema informatico.
La Corte Suprema ribaltando i precedenti verdetti dei giudici di primo grado e d'appello ha sottolineato come sia sufficiente una serie di azioni che prese una ad una potrebbero minare quell'integrità psico-fisica del lavoratore, che il datore deve garantire per obbligo verso la legge e la Costituzione. Una volta che la vittima ha fornito elementi che dimostrano le vessazioni il datore di lavoro deve essere in grado di dimostrare il contrario.
Come si legge in sentenza, "Nell'ipotesi in cui il lavoratore chieda il danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice di merito, pur nella accertata insussistenza di un accertamento persecutorio idoneo a unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità del mobbing, è tenuto a valutare se alcuni comportamenti denunciati - esaminati singolarmente ma sempre in relazione agli altri - pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e come tali siano ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro".
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Con questa motivazione la Corte ha dato ragione a una farmacista che aveva chiesto di essere risarcita per i danni subiti in quanto ammalatasi di depressione grave a causa di continue angherie subite dal titolare e dai colleghi. La donna, che era la più anziana del gruppo, era stata infatti presa di mira poichè non era in grado di usare il sistema informatico.
La Corte Suprema ribaltando i precedenti verdetti dei giudici di primo grado e d'appello ha sottolineato come sia sufficiente una serie di azioni che prese una ad una potrebbero minare quell'integrità psico-fisica del lavoratore, che il datore deve garantire per obbligo verso la legge e la Costituzione. Una volta che la vittima ha fornito elementi che dimostrano le vessazioni il datore di lavoro deve essere in grado di dimostrare il contrario.
Come si legge in sentenza, "Nell'ipotesi in cui il lavoratore chieda il danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice di merito, pur nella accertata insussistenza di un accertamento persecutorio idoneo a unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità del mobbing, è tenuto a valutare se alcuni comportamenti denunciati - esaminati singolarmente ma sempre in relazione agli altri - pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e come tali siano ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro".
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