"La responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non configurando una ipotesi di responsabilità oggettiva, non è circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore sul luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della sua maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico; inoltre, nel caso in cui il datore di lavoro non adotti, a norma dell'art. 2087 c.c., tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e le condizioni di salute del prestatore di lavoro, rendendosi così inadempiente ad un obbligo contrattuale, questi, oltre al risarcimento dei danni, ha in linea di principio il diritto di astenersi dalle specifiche prestazioni la cui esecuzione possa arrecare pregiudizio alla sua salute".
Ribadendo tali principi di diritto la Corte di Cassazione, con sentenza n. 18921 del 5 novembre 2012, ha rigettato il ricorso proposto da una società avverso la sentenza che aveva accolto le richieste di alcuni lavoratori in merito al pagamento della retribuzione non corrisposta, rilevando una serie di difetti negli impianti e nell'organizzazione del lavoro afferente alle operazioni di bonifica dall'amianto, ritenuti pericolosi per la salute degli addetti a tali lavorazioni, le quali avevano giustificato il rifiuto della prestazione nei relativi ambienti lavorativi da parte dei lavoratori, che, in tal modo, avevano reagito all'inadempimento da parte del datore di lavoro agli obblighi nascenti dall'art. 2087 c.c.
La società ricorrente deduce che il contenuto dell'obbligazione va valutato in relazione alle conoscenze e ai mezzi a disposizione al tempo cui si riferisce il fatto esaminato (anni ‘80 del secolo scorso) e che il rispetto di tale obbligo si misura alla stregua delle tecnologie e degli accorgimenti organizzativi e procedurali generalmente acquisiti e praticati in quei determinato momento storico; la sentenza impugnata - sempre secondo la società - avrebbe invece omesso di effettuare tale operazione di storicizzazione dei doveri imprenditoriali, non considerando in maniera adeguata che nel periodo oggetto di causa (anno 1989, quando l'uso dell'amianto non era stato ancora vietato e non erano stati ancora stabiliti i valori limite di tollerabilità nel trattamento dello stesso) le precauzioni adottate dalla Società nella scelta dei macchinari e degli impianti istallati e nella relativa organizzazione del lavoro erano in perfetta sintonia con la legislazione e con le conoscenze scientifiche del tempo.
Non è però dello stesso avviso la Suprema Corte che, sottolineando come i giudici d'appello hanno valutato che le perizie dimostravano che nel periodo in questione, si era creato un rischio ambientale di esposizione ad inalazione di fibre di amianto per tutti i lavoratori dipendenti, affermano che la Società si era resa inadempiente agli obblighi di cui all'art. 2087 c.c., "non per la mancata applicazione di nuove tecnologie, ma in ragione della violazione delle norme di comportamento da essa stessa dettate in materia di trattamento dell'amianto con la propria circolare del 1 aprile 1983, quando, a seguito dell'evolvere delle conoscenze mediche e dell'adozione da parte della Comunità delle direttive del 1980, del 1982 e del 1983, era ormai divenuto pienamente noto il rischio di tumore derivante dalla esposizione alle fibre di amianto". In merito poi al comportamento dei lavoratori, che avevano marcato il cartellino di presenza, ma si erano poi rifiutati di lavorare nelle zone a rischio, i giudici di legittimità affermano che non appare irragionevole la valutazione del Tribunale che ha ritenuto come il comportamento dei lavoratori esprimesse una giustificata reazione all'altrui inadempimento ai sensi dell'art. 1460 c.c. - implicitamente valutando come irrilevante il fatto che, dopo la timbratura all'orologio marcatempo, i lavoratori medesimi si fossero trattenuti nelle vicinanze, senza recarsi ai singoli reparti di produzione, ma neppure allontanandosi dall'officina - tenuto conto dei motivi dell'iniziativa, dell'avvenuta conoscenza da parte dei lavoratori del contenuto del verbale di sopralluogo del medico che riportava notizie allarmanti con riguardo a detto luogo di lavoro.
Ribadendo tali principi di diritto la Corte di Cassazione, con sentenza n. 18921 del 5 novembre 2012, ha rigettato il ricorso proposto da una società avverso la sentenza che aveva accolto le richieste di alcuni lavoratori in merito al pagamento della retribuzione non corrisposta, rilevando una serie di difetti negli impianti e nell'organizzazione del lavoro afferente alle operazioni di bonifica dall'amianto, ritenuti pericolosi per la salute degli addetti a tali lavorazioni, le quali avevano giustificato il rifiuto della prestazione nei relativi ambienti lavorativi da parte dei lavoratori, che, in tal modo, avevano reagito all'inadempimento da parte del datore di lavoro agli obblighi nascenti dall'art. 2087 c.c.
La società ricorrente deduce che il contenuto dell'obbligazione va valutato in relazione alle conoscenze e ai mezzi a disposizione al tempo cui si riferisce il fatto esaminato (anni ‘80 del secolo scorso) e che il rispetto di tale obbligo si misura alla stregua delle tecnologie e degli accorgimenti organizzativi e procedurali generalmente acquisiti e praticati in quei determinato momento storico; la sentenza impugnata - sempre secondo la società - avrebbe invece omesso di effettuare tale operazione di storicizzazione dei doveri imprenditoriali, non considerando in maniera adeguata che nel periodo oggetto di causa (anno 1989, quando l'uso dell'amianto non era stato ancora vietato e non erano stati ancora stabiliti i valori limite di tollerabilità nel trattamento dello stesso) le precauzioni adottate dalla Società nella scelta dei macchinari e degli impianti istallati e nella relativa organizzazione del lavoro erano in perfetta sintonia con la legislazione e con le conoscenze scientifiche del tempo.
Non è però dello stesso avviso la Suprema Corte che, sottolineando come i giudici d'appello hanno valutato che le perizie dimostravano che nel periodo in questione, si era creato un rischio ambientale di esposizione ad inalazione di fibre di amianto per tutti i lavoratori dipendenti, affermano che la Società si era resa inadempiente agli obblighi di cui all'art. 2087 c.c., "non per la mancata applicazione di nuove tecnologie, ma in ragione della violazione delle norme di comportamento da essa stessa dettate in materia di trattamento dell'amianto con la propria circolare del 1 aprile 1983, quando, a seguito dell'evolvere delle conoscenze mediche e dell'adozione da parte della Comunità delle direttive del 1980, del 1982 e del 1983, era ormai divenuto pienamente noto il rischio di tumore derivante dalla esposizione alle fibre di amianto". In merito poi al comportamento dei lavoratori, che avevano marcato il cartellino di presenza, ma si erano poi rifiutati di lavorare nelle zone a rischio, i giudici di legittimità affermano che non appare irragionevole la valutazione del Tribunale che ha ritenuto come il comportamento dei lavoratori esprimesse una giustificata reazione all'altrui inadempimento ai sensi dell'art. 1460 c.c. - implicitamente valutando come irrilevante il fatto che, dopo la timbratura all'orologio marcatempo, i lavoratori medesimi si fossero trattenuti nelle vicinanze, senza recarsi ai singoli reparti di produzione, ma neppure allontanandosi dall'officina - tenuto conto dei motivi dell'iniziativa, dell'avvenuta conoscenza da parte dei lavoratori del contenuto del verbale di sopralluogo del medico che riportava notizie allarmanti con riguardo a detto luogo di lavoro.
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