"Il rifiuto, da parte del lavoratore subordinato, di svolgere la prestazione lavorativa (ad esempio in caso di adibizione a mansioni inferiori) può essere legittimo e quindi non giustificare il licenziamento in base al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive enunciato dall'art. 1460 cod. civ., sempre che il rifiuto sia proporzionato all'illegittimo comportamento dei datore di lavoro e conforme a buona fede".
Sulla base di tale principio la Corte di Cassazione, con sentenza n. n. 1693 del 24 gennaio 2013, ha rigettato il ricorso proposto da una società avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello, ritenendo illegittimo il licenziamento, aveva ordinato la reintegra di un lavoratore licenziato per giusta causa per mancato rispetto dell'orario di lavoro. Nello specifico il lavoratore aveva subito una dequalificazione professionale culminata in una totale cessazione delle mansioni seguita dall'assegnazione di compiti che lo avevano impegnato per circa 20 minuti al giorno e quindi da una nuova forzata totale inattività protrattasi fino al licenziamento per giusta causa.
La Suprema Corte ha precisato che la Corte di appello, lungi dall'utilizzare la disposizione di cui all'art. 1460 cod. civ. per ritenere che il lavoratore, "in applicazione del principio inadimplenti non est adimplendum potesse considerarsi esonerato dall'obbligo del rispetto dell'orario di lavoro, ha solo fatto riferimento alla stessa quale criterio per operare una valutazione comparativa degli opposti adempimenti, avuto riguardo alla funzione economico-sociale del contratto, e, così, per soppesare, anche alla luce del ritenuto venir meno dell'interesse aziendale alle prestazioni del ricorrente (evincibile dall'avere la società permesso che il dipendente commettesse, per oltre due mesi, più infrazioni continuative dell'orario di lavoro, senza contestare da subito un comportamento già suscettibile di sanzione non espulsiva), la gravità dell'inadempimento nella prospettiva della riconducibilità dello stesso ad una giusta causa di licenziamento."
Uno stato di forzata inattività - proseguono i giudici di legittimità - imputabile al datore di lavoro, pur senza legittimare un rifiuto del lavoratore di adempiere alla propria prestazione, può tuttavia aver contribuito a determinare una situazione di inadempimento del lavoratore e, dunque, ben può essere preso in considerazione per un ridimensionamento della gravità dell'inadempimento stesso.
La Corte territoriale ha poi, secondo la Suprema Corte, correttamente ritenuto che "il tempo trascorso fino alla contestazione fosse in contrasto con la regola della buona fede e della correttezza nell'attuazione del rapporto di lavoro. In particolare, ha ritenuto che, trattandosi nella specie di più fatti tutti autonomamente suscettibili di sanzione disciplinare (e, dunque, non di comportamenti necessitanti di una valutazione unitaria in quanto convergenti a comporre un'unica condotta), ha considerato che la mancanza di una tempestiva contestazione delle singole infrazioni operasse quale fonte di una presunzione che si trattasse di un comportamento tollerato.".
Sulla base di tale principio la Corte di Cassazione, con sentenza n. n. 1693 del 24 gennaio 2013, ha rigettato il ricorso proposto da una società avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello, ritenendo illegittimo il licenziamento, aveva ordinato la reintegra di un lavoratore licenziato per giusta causa per mancato rispetto dell'orario di lavoro. Nello specifico il lavoratore aveva subito una dequalificazione professionale culminata in una totale cessazione delle mansioni seguita dall'assegnazione di compiti che lo avevano impegnato per circa 20 minuti al giorno e quindi da una nuova forzata totale inattività protrattasi fino al licenziamento per giusta causa.
La Suprema Corte ha precisato che la Corte di appello, lungi dall'utilizzare la disposizione di cui all'art. 1460 cod. civ. per ritenere che il lavoratore, "in applicazione del principio inadimplenti non est adimplendum potesse considerarsi esonerato dall'obbligo del rispetto dell'orario di lavoro, ha solo fatto riferimento alla stessa quale criterio per operare una valutazione comparativa degli opposti adempimenti, avuto riguardo alla funzione economico-sociale del contratto, e, così, per soppesare, anche alla luce del ritenuto venir meno dell'interesse aziendale alle prestazioni del ricorrente (evincibile dall'avere la società permesso che il dipendente commettesse, per oltre due mesi, più infrazioni continuative dell'orario di lavoro, senza contestare da subito un comportamento già suscettibile di sanzione non espulsiva), la gravità dell'inadempimento nella prospettiva della riconducibilità dello stesso ad una giusta causa di licenziamento."
Uno stato di forzata inattività - proseguono i giudici di legittimità - imputabile al datore di lavoro, pur senza legittimare un rifiuto del lavoratore di adempiere alla propria prestazione, può tuttavia aver contribuito a determinare una situazione di inadempimento del lavoratore e, dunque, ben può essere preso in considerazione per un ridimensionamento della gravità dell'inadempimento stesso.
La Corte territoriale ha poi, secondo la Suprema Corte, correttamente ritenuto che "il tempo trascorso fino alla contestazione fosse in contrasto con la regola della buona fede e della correttezza nell'attuazione del rapporto di lavoro. In particolare, ha ritenuto che, trattandosi nella specie di più fatti tutti autonomamente suscettibili di sanzione disciplinare (e, dunque, non di comportamenti necessitanti di una valutazione unitaria in quanto convergenti a comporre un'unica condotta), ha considerato che la mancanza di una tempestiva contestazione delle singole infrazioni operasse quale fonte di una presunzione che si trattasse di un comportamento tollerato.".
Altri articoli che potrebbero interessarti:
In evidenza oggi: