Non sussiste quindi un obbligo di previo esperimento della procedura di ammissione al concordato - e naufragio di questa - prima di poter instaurare o far procedere il giudizio fallimentare. Almeno...non più.
Fino a pochi anni fa, infatti, stando alla lettera dell'art. 160 del Regio Decreto 267/1942 (c.d. "Legge Fallimentare
") - secondo cui l'imprenditore poteva proporre al tribunale una procedura concorsuale alternativa "fino a che il fallimento non fosse dichiarato" - vigeva l'uso giurisprudenziale di sospendere i procedimenti fallimentari in atto in favore di quelli introdotti da un'istanza di concordato preventivo, quand'anche questa fosse successiva alla domanda di fallimento inoltrata dai creditori. Situazione che dava luogo, a sua volta, ad un utilizzo improprio e dilatorio dell'istituto del concordato preventivo da parte dell'imprenditore insolvente, con il solo scopo di procrastinare il più a lungo possibile la (inesorabile) dichiarazione di fallimento.Ma la L. 80/2005, modificativa della Legge Fallimentare, ha cancellato l'inciso di cui sopra dall'art.160, facendo così cadere questa sorta di effetto sospensivo "di fatto". Come affermano gli Ermellini, fra concordato e fallimento vi è un rapporto di consequenzialità logica, ma non procedimentale. Il debitore, nell'esercizio del suo diritto di difesa, può tentare la strada del concordato preventivo fin quando non sia intervenuta la sentenza che dichiara il fallimento; ma questo non può operare come fatto impeditivo delle iniziative recuperatorie messe in atto dal curatore per cercare di "salvare il salvabile".
La pronuncia della Corte ha inoltre fatto chiarezza sulle competenze del giudice delegato, il quale può effettuare il solo controllo di legittimità sulla domanda di concordato, rimanendo in capo ai creditori il potere di valutare nel merito il possibile buon esito economico del piano concordatario.