Gli Ermellini hanno affermato che disimpegnarsi dall'unione costituisce un diritto costituzionalmente garantito e non può essere fonte di riprovazione giuridica, specialmente laddove detta decisione risulti adottata da persona in età matura all'esito di una lunga coabitazione non felice, mentre solitamente l'avanzare dell'età tende ad avvicinare i coniugi con il crescere delle necessità di assistenza reciproca, morale e materiale.
Secondo la ricostruzione della vicenda, la Corte d'appello di Firenze, in riforma della sentenza
di primo grado, aveva escluso l'addebito della separazione dei coniugi, in favore della ex moglie che si era allontanata dalla casa coniugale, avendo poi chiesto la separazione. I giudici di secondo grado avevano ritenuto che l'abbandono, a un'età - settant'anni - in cui semmai "più naturale è il bisogno di vicinanza e di solidarietà morale e materiale" e dopo quasi cinquant'anni di un matrimonio nel complesso non felice, come dimostrato anche da una risalente separazione poi rientrata, trovava la sua ragione appunto in quella infelicità - almeno per la signora - nella quale ella, alla fine, non aveva avuto più la forza di continuare a vivere.Del che non le si poteva muovere addebito una volta riconosciuto, anche nella giurisprudenza di legittimità (si fa espresso riferimento a Cass. 21099/2007), che nessuno può essere obbligato a mantenere una convivenza non più gradita, il disimpegnarsi dalla quale costituisce un diritto costituzionalmente garantito. Rigettando il motivo di ricorso dell'ex marito, i giudici di Piazza Cavour hanno spiegato che "con la riforma del diritto di famiglia del 1975 la separazione dei coniugi
, com'è noto, è stata svincolata dal presupposto della colpa di uno di essi e consentita, invece, tutte le volte che "si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza" (art. 151 c.c. nel testo riformato).Con la sentenza n. 3356 del 2007 questa Corte ha ampliato l'originaria interpretazione, di stampo strettamente oggettivistico, di tale norma - interpretazione secondo la quale il diritto alla separazione si fonda su fatti che nella coscienza sociale e nella comune percezione rendano intollerabile il proseguimento della vita coniugale - per dare della medesima norma una lettura aperta anche alla valorizzazione di "elementi di carattere soggettivo, costituendo la intollerabilità un fatto psicologico squisitamente individuale, riferibile alla formazione culturale, alla sensibilità e al contesto interno alla vita dei coniugi".
Ribadita, quindi, l'originaria impostazione oggettivistica quanto al (solo) profilo del controllo giurisdizionale sulla intollerabilità della prosecuzione della convivenza nel senso che le situazioni di intollerabilità della convivenza devono essere oggettivamente apprezzabili e giudizialmente controllabili - e puntualizzato che la frattura può dipendere, come già affermato da questa stessa Corte (Cass. 7148/1992) dalla condizione di disaffezione e di distacco spirituale anche di uno solo dei coniugi, ha concluso che in una doverosa "visione evolutiva del rapporto coniugale - ritenuto, nello stadio attuale della società, incoercibile e collegato al perdurante consenso di ciascun coniuge - (...) ciò significa che il giudice, per pronunciare la separazione, deve verificare, in base ai fatti obiettivi emersi, ivi compreso il comportamento processuale delle parti, con particolare riferimento alle risultanze del tentativo di conciliazione ed a prescindere da qualsivoglia elemento di addebitabilità, l'esistenza, anche in un solo coniuge, di una condizione di disaffezione al matrimonio tale da rendere incompatibile, allo stato, pur a prescindere da elementi di addebitabilità da parte dell'altro, la convivenza. Ove tale situazione d'intollerabilità si verifichi, anche rispetto ad un solo coniuge, deve ritenersi che questi abbia diritto di chiedere la separazione: con la conseguenza che la relativa domanda, costituendo esercizio di un suo diritto, non può costituire ragione di addebito".
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