La Suprema Corte, premettendo che "è stato chiarito in giurisprudenza che, in tema di concussione
, il termine "utilità" indica tutto ciò che rappresenta un vantaggio per la persona, materiale o morale, patrimoniale o non patrimoniale, oggettivamente apprezzabile, consistente tanto in un dare quanto in un facere e ritenuto rilevante dalla consuetudine o dal convincimento comune; ne deriva che i favori sessuali rientrano nella suddetta categoria in quanto rappresentano un vantaggio per il funzionario che ne ottenga la promessa o la effettiva prestazione", rileva che i giudici di merito hanno ravvisato, nella relazione fra la aspirante a ottenere un posto di lavoro in qualità di asserita appartenente a categoria protetta e l'impiegato dell'Ufficio del lavoro, addetto alla formazione delle graduatorie per il collocamento obbligatorio, una situazione di squilibrio prevaricatorio, tale da determinare nella donna uno stato di soggezione idoneo a condizionarne la volontà.Non c'è dubbio - affermano i giudici di legittimità - che i fatti, caratterizzati dalla prospettazione alla donna dei gravi rischi cui la sua situazione di speranza e, poi, di conservazione di un lavoro stabile era soggetta, e contestualmente, della possibilità per l'imputato
di risolvere ogni cosa, previa la "gratificazione" di cui si è detto, lungi dall'essere riconducibili alle addotte ipotesi della truffa (che avrebbe implicato la erronea convinzione, nella donna, della doverosità delle "prestazioni" richiestele) e della millanteria (che appare incompatibile col ruolo "centrale" comunque vantato e assunto dal prevenuto non solo nella prima vicenda ma anche nella seconda, a quella intimamente collegata), appaiono chiaramente inquadrabili nella figura della concussione, quale unitariamente disciplinata nel previgente art. 317 codice penale.Nell'attuale sdoppiamento di tale figura, successiva alla legge 190 del 2012, "non può poi che optarsi per la riconduzione dei fatti alla concussione di tipo "costrittivo", in quanto col suo comportamento, subdolamente vago nella indicazione della natura dei problemi insorti o insorgendi, ma nel contempo assai determinato nel pretendere il 'compensò necessario per un suo intervento risolutore, reso possibile e credibile per la posizione rivestita in seno alla p.a., l'impiegato suscitò nella donna l'angosciante e concreto timore che le venisse disconosciuto un diritto, concernente un interesse per lei assolutamente vitale, se non si fosse piegata a corrispondere a quanto (con non poca spregiudicatezza) le veniva richiesto. Si trattava dunque di una minaccia, formulata in modi larvati e oscuri, che, per l'oggetto e il contesto, recava una elevata carica di gravità, tale da condizionare pesantemente la libertà di determinazione del soggetto passivo, integrando così gli estremi della "costrizione", rilevante agli effetti (del vecchio e) del nuovo art. 317 c.p."
I giudici sottolineano inoltre, in relazione al fatto che, in tale nuova versione dell'art. 317 codice penale, il reato può essere commesso solo dal pubblico ufficiale, che deve senz'altro ritenersi che l'impiegato, in quanto deputato alla formazione delle graduatorie degli aspiranti al collocamento obbligatorio, che doveva servire di base per il concreto avviamento al lavoro, svolgeva un'attività certificatoria, con cui concorreva alla formazione della volontà della pubblica amministrazione, ed era, quindi, certamente, secondo i criteri di cui all'art. 357 cp., un pubblico ufficiale.