Il caso preso in esame dai giudici di Piazza Cavour vede come protagonista un dipendente che aveva avuto un diverbio litigioso con un collega - al quale aveva rivolto la frase "Ti metto in un pilastro"- che, secondo i giudici di merito, avuto riguardo al suo concreto svolgimento, così come risultante dalle emergenze istruttorie non integrava, con riferimento anche ai precedenti disciplinari e alle previsioni contrattuali, una giusta causa od un giustificato motivo di licenziamento.
Rilevava la Corte territoriale che il diverbio litigioso non era stato seguito da vie di fatto e non aveva arrecato grave perturbamento, sicché difettavano i due "elementi aggiuntivi" assunti dal CCNL quali presupposti per la configurabilità di un'ipotesi di licenziamento in tronco. La Società datrice di lavoro, ricorrendo in Cassazione, sosteneva, quanto alla valutazione della portata intimidatoria della frase, l'erroneità della sentenza della Corte territoriale sul rilievo che la minaccia integra un reato formale di pericolo e, quindi, l'idoneità intimidatrice della condotta dell'agente va valutata ex ante a prescindere dall'effettivo verificarsi in concreto della turbativa e non è necessaria, ai fini della sua configurabilità, la presenza del soggetto passivo essendo sufficiente che costui ne venga a conoscenza aliunde.
La Suprema Corte, non condividendo la censura illustrata dalla Società, ha precisato che "l'apprezzamento della gravità del comportamento del dipendente, ai fini del giudizio sulla legittimità del licenziamento per giusta causa, deve esser compiuta alla stregua della ratio dell'art. 2119 c.c. e cioè tenendo conto dell'incidenza del fatto sul particolare rapporto fiduciario che lega il datore di lavoro al lavoratore, delle esigenze poste dall'organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione. Lo stabilire se nel fatto commesso dal dipendente ricorrano o meno gli estremi di una giusta causa di licenziamento ha pertanto carattere autonomo rispetto al giudizio che del medesimo fatto debba darsi a fini penali.".
La sentenza impugnata, proseguono i giudici di legittimità, è sotto il profilo in esame, corretta avendo i giudici di appello proceduto, con riferimento al comportamento addebitato al lavoratore astrattamente costituente reato, ad un autonoma valutazione dello stesso ex art. 2119 c.c. Inoltre la Corte del merito, contrariamente a quanto asserito dalla società ricorrente, non ha affatto ignorato, nel procedere all'apprezzamento ex art. 2119 c.c. del fatto addebitato, né le precedenti mancanze disciplinari, né gli allegati similari episodi, per un verso escludendo la rilevanza dei precedenti disciplinari non avendo questi nessuna correlazione, per tipologia e gravità, con l'episodio che ha dato luogo al licenziamento, e dall'altro ritenendo che i cd. episodi similari non integrano, sulla base della espletata istruttoria, circostanza confermativa dell'unica mancanza contestata.