"In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio dall'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento, ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale".
Ricordando tale principio di diritto ormai consolidato, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 14214 del 5 giugno 2013, ha rigettato il ricorso di un lavoratore avente ad oggetto il risarcimento del danno conseguente a preteso demansionamento.
Correttamente la Corte d'Appello aveva precisato che non risultando accertata la totale inattività del lavoratore - emergendo dalla istruttoria, contrariamente a quanto prospettato nel ricorso, una adibizione a diversi compiti - era onere del dipendente precisare come le diverse mansioni erano idonee a depauperare il suo bagaglio professionale.
Al prospettato demansionamento, dunque, non poteva riconoscersi alcun danno stante il difetto di qualsiasi allegazione al riguardo da parte del lavoratore nell'atto introduttivo del giudizio.