di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione Civile, sezione lavoro, sentenza n. 14206 del 5 giugno 2013. Nel corso del tempo sono stati diversi gli interventi normativi succedutesi in tema di principio di uguaglianza e divieto di discriminazione sui luoghi di lavoro, in particolare in relazione al genere sessuale. Tra questi, la legge 20 maggio 1970, n. 300, il quale dedica l'intero art. 15 all'individuazione ed alla sanzione dei c.d. "atti discriminatori" in ossequio al principio della parità dei rapporti di lavoro. Tale normativa mira a colpire con la nullità "qualsiasi patto o atto diretto a discriminare un lavoratore, tra l'altro, nell'assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti e nei provvedimenti disciplinari". Importanti anche le fonti rappresentate dagli artt. 3, 37 e 51 della Costituzione

e da alcuni interventi in ambito CEE, nonché della legge n. 903 del 9 dicembre 1977 (parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro). Sulla base di quest'ultima legge è possibile ricorrere all'autorità giudiziaria per denunciare discriminazione del personale femminile soltanto in merito alle fattispecie di eccesso di carico di lavoro e di assegnazione di orari notturni

Nel caso di specie una dipendente lamenta in primo grado la mancata assegnazione al ruolo di funzionario - posizione a cui da tempo aspirava - per motivi discriminatori basati sul genere sessuale, sussistendo all'epoca tutti i requisiti necessari, di fatto e contrattuali, per permetterne la promozione. Ad un rigetto di primo grado è seguito un accoglimento del gravame da parte della Corte d'Appello. Promuove ora ricorso il datore di lavoro lamentando vizio di motivazione della sentenza del giudice di legittimità, fondata su elementi probatori non precisi né concordanti;  la promozione di alcuni colleghi di sesso maschile sarebbe infatti avvenuta non singolarmente ma nell'ambito di una tornata di promozioni collettive e l'autorità giudicante non avrebbe fornito alcuna motivazione valida volta a dimostrare la sussistenza di discriminazione nel trattamento della resistente rispetto al trattamento riservato agli altri candidati.

La Suprema Corte afferma come sia possibile per la lavoratrice discriminata agire ex l. 903/1977 soltanto nei due casi sopra citati; "per qualunque altra condotta discriminatoria (…) l'unico strumento processuale utilizzabile continua ad essere l'azione ordinaria di nullità di cui all'art. 15 dello Statuto dei Lavoratori". Prosegue poi la Cassazione illustrando come in dottrina e in giurisprudenza si siano delineate le due figure della discriminazione diretta e indiretta, intendendosi con la seconda "ogni trattamento pregiudizievole conseguente alla adozione di criteri che svantaggiano in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell'uno o dell'altro sesso e riguardino i requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa". L'onere di provare tale discriminazione resta tuttavia a carico della presunta danneggiata; prova che nel caso di specie non è stata raggiunta, non avendo gli elementi prodotti nel corso del giudizio di merito i caratteri della gravità, della precisione e della concordanza. Per questo motivo la Cassazione accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata, decidendo nel merito col rigetto della domanda iniziale della lavoratrice.


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