La Corte di Cassazione, con sentenza n. 14643 dell'11 giugno 2013, ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto nel caso in cui lo stato di malattia (nel caso di specie, la depressione) sia dovuto al mobbing subito all'interno dell'azienda.
La dipendente di una società, con mansioni di impiegata di secondo livello, veniva licenziata per superamento del periodo di comporto; sosteneva però che la malattia per la quale aveva superato il periodo di comporto (frequenti stati depressivi, ansie e crisi di panico) era stata causata da demansionamento illegittimo e da altri comportamenti datoriali integranti la condotta di mobbing.
Tale impostazione era accolta dal Giudice di primo grado, che aveva anche riconosciuto il risarcimento del danno alla persona; la Corte d'appello confermava la pronuncia ravvisando la responsabilità della Società datrice nella lesione della salute della dipendente che ne aveva determinato il superamento del periodo di comporto per malattia e la conseguente illegittimità del licenziamento.
La Suprema Corte, rigettando il ricorso della Società, afferma come il convincimento dei Giudici di merito sia sorretto da adeguata motivazione, immune da vizi di contraddittorietà o illogicità.
In particolare nei confronti della lavoratrice vi fu un vero e proprio svuotamento di mansioni al fine "di rendere la vita impossibile alla dipendente e di costringerla a dimettersi"; in tale contesto oppositivo per la lavoratrice "i giudici, sia di primo grado che d'appello, hanno ritenuto, con tipica valutazione di merito ad essi devoluta, che le assenze per malattia della lavoratrice fossero dovute all'illegittimo e discriminatorio comportamento datoriale e che quindi non fossero da computare ai fini del periodo di comporto".
I Giudici di legittimità hanno poi ricordato il principio di diritto, al quale si è correttamente attenuta la Corte territoriale, secondo cui "per "mobbing" si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; e) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio."