"Integra la minaccia costitutiva del delitto di estorsione la prospettazione da parte del datore di lavoro ai dipendenti, in un contesto di grave crisi occupazionale, della perdita del posto di lavoro per il caso in cui non accettino un trattamento economico inferiore a quello risultante dalle buste paga.". 

E' quanto ribadito dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 28695 del 4 luglio 2013, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto da due inprenditrici alle quali veniva contestato di aver costretto cinque dipendenti ad accettare e sottoscrivere la busta paga, senza corresponsione degli emolumenti, dietro la minaccia di non rinnovare il contratto di lavoro a tempo indeterminato, e conseguentemente venivano dichiarate responsabili del reato di estorsione continuata. 

Non accolta la linea difensiva delle imprenditrici secondo cui "la sottoscrizione delle buste - pur in assenza dell'effettivo pagamento delle somme in esse indicate - non era stato il frutto di minacce e della conseguente coartazione psicologica dei lavoratori, in quanto essa fu concordata con i dipendenti della ditta, per non far apparire lo stato di difficoltà economica della società poi acclarata con la sentenza di fallimento". 

La Suprema Corte, precisando che nei motivi del ricorso sono formulate mere contestazioni di veridicità, in un impensabile tentativo di ottenere una revisione di merito delle valutazioni, ha evidenziato come appare "alquanto improbabile che i lavoratori, nella situazioni di dissesto economico in cui versava l'azienda, abbiano deciso, d'accordo con il datore di lavoro, di accettare un importo inferiore a quanto dovuto, rilasciando nonostante ciò quietanza liberatoria, con il rischio di non poter essere poi soddisfatti nelle loro spettanze retributive.".


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