La Corte di Cassazione, Sezione lavoro, con sentenza n.16929 datata 8 luglio 2013 ha ritenuto legittimo l'avvenuto licenziamento ed il rifiuto di reintegrare nel posto di lavoro una cassiera che non aveva emesso regolari scontrini fiscali e si era impossessata del denaro consegnatole dai clienti durante la vendita di prodotti commerciali.
Il Giudice del Tribunale del Lavoro della Corte di Appello di Roma, con due sentenze rispettivamente datate 29 ottobre 2009 e 09 marzo 2010 ha respinto la richiesta di annullamento del licenziamento presentata dalla ricorrente e la sua reintegrazione sul posto del lavoro. La richiedente ha presentato ricorso alla Corte di Cassazione Sezione Lavoro. I giudici di Piazza Cavour hanno rigettato la sua istanza sottolineando che la lavoratrice essendo una dipendente responsabile di un punto vendita, ubicato presso un importante aeroporto, aveva il dovere di registrare ed incassare ogni somma di denaro ricevuta dai clienti a seguito alla vendita di articoli commerciali rilasciando regolare scontrino fiscale di cassa. Tali compiti non erano stati da lei effettuati come risultava dal materiale probatorio allegato agli atti e si dimostrava che si era appropriata delle somme incassate. La situazione veniva aggravata dalla reiterazione di tali comportamenti.
La ricorrente esponendo il suo ricorso alla Corte di Cassazione evidenziava una violazione ed una errata applicazione dell'articolo 437 c.p.c. e dell'articolo 7 della legge del 1970 n.300 sostenendo che il suo datore di lavoro, non avendo l'autorizzazione al deposito di note scritte, l'aveva pregiudicata tanto da dover indicare oralmente le sue opposizioni. Sottolineava il fatto che la controparte non si sarebbe potuta avvalere di documentazione relativa alla mancata emissione del contrassegno se avesse rimarcato l'assenza di tale prove in giudizio relativamente agli scontrini riguardanti i beni venduti. La Corte di Cassazione ha ritenuto tale motivazione infondata poiché uno dei principi fondamentali del lavoro prevede la possibilità di sollevare contestazioni oralmente dopo che è stato stabilito il tema del dibattito giuridico. Ribadiva inoltre che era evidente l'incasso del denaro da parte della richiedente e l'omissione della documentazione fiscale e le relative scritture di cassa.
Nell'appello la ricorrente ha fatto presente che le testimonianze ed i rapporti di servizio non hanno fornito sufficienti elementi tali da giustificare il suo licenziamento per giusta causa, semmai hanno dato l'immagine di una possibile sua disattenzione nell'emissione delle ricevute. La lavoratrice ha sostenuto che le differenze di cassa potevano essere dovute a numerosi altri fattori a lei non imputabili. I Giudici d'appello hanno dichiarato senza fondamento tali affermazioni sostenendo che la lavoratrice si era limitata a mettere in dubbio tutti gli accertamenti istruttori effettuati. La Corte di Cassazione ha evidenziato che la non avvenuta registrazione di cassa degli articoli venduti e la relativa mancata emissione degli scontrini sono emersi da materiale inoppugnabile debitamente raccolto, dalle testimonianze di alcuni testi, da verifiche espletate da personale addetto ai controlli contabili e da riscontri di cassa effettuati alla fine di ogni turno della dipendente.
La reclamante ha indicato anche un terzo motivo di censura asserendo la violazione e l'errata attuazione dell'articolo 2119 del codice civile relativamente al recesso per giusta causa. Ha incolpato la Corte d'Appello di aver sbagliato, pur non avendo prove sicure della sua responsabilità e tanto meno della appropriazione indebita di denaro, nel giudicare proporzionata la sanzione del suo licenziamento. La Corte di Cassazione ha considerato ingiustificata anche questa motivazione adducendo che, dopo aver valutato con attenzione la rimostranza, l'avvenuto licenziamento per giusta causa era motivano non solo dalla mancata emissione della documentazione fiscale ma anche dagli importi non incassati. I Giudici hanno rimarcato, senza nessun vizio sia giuridico che logico, la scorretta condotta della lavoratrice che non svolgendo i suoi doveri di cassiera con serietà e responsabilità si era resa responsabile degli azioni contestatole in giudizio. Il comportamento della reclamante è stato considerato ulteriormente riprovevole poiché la salariata, nel giro di breve tempo, ha reiterato i suoi erronei atti arrivando a ledere in modo inequivocabile il vincolo fiduciario precedentemente instaurato con il suo datore di lavoro e necessario per una corretta e reciproca collaborazione. La sua perseveranza nel mantenere una condotta inadeguata al suo ruolo ha deposto a suo sfavore mostrando la sua slealtà e disonestà. Pertanto la Corte di
Cassazione ha rigettato il ricorso ed ha stabilito le spese processuali totalmente a carico della ricorrente nella misura complessiva di 4000 euro a titolo di corrispettivi professionali e di 50 euro per il pagamento degli accessori legali.