DI STEFANIA SQUEO - Tribunale di Roma, sentenza del 17 ottobre 2012: "L'autore del riconoscimento effettuato in malafede non è legittimato ad impugnarlo successivamente per difetto di veridicità, restando, invece, tale legittimazione in capo a tutti gli altri soggetti previsti dalla norma di cui all'art.263 cod. civ. L'interpretazione della norma di cui all'art.263 cod. civ., alla luce dei principi fondamentali dell'ordinamento interno ed internazionale e del diritto fondamentale allo status e all'identità personale, impone di considerare irretrattabile il riconoscimento avvenuto nella piena consapevolezza della sua falsità."

Un uomo impugna il riconoscimento della figlia della propria compagna, che aveva effettuato quarant'anni prima, nella piena consapevolezza di non essere il vero padre. Egli afferma, infatti, di aver conosciuto la compagna quando la di lei figlia aveva già sette mesi e ciò che aveva acconsentito di fare all'epoca era il cosiddetto riconoscimento "di compiacenza"!

Secondo il Tribunale di Roma [1]: "colui il quale ha riconosciuto un figlio sapendo di non essere il padre biologico non è legittimato ad impugnare successivamente il riconoscimento: attribuirgli tale potere significherebbe riconoscergli la facoltà di rivedere ad libitum ed in qualunque momento la propria decisione, ponendo nel nulla il falso riconoscimento e sottraendosi allo svolgimento delle funzioni di genitore che ne sono discese".

Secondo l'argomentare dei Giudici, consentire tale facoltà al padre significherebbe dar luogo ad una intollerabile violazione del generale principio di uguaglianza [2] ed in particolare di uguaglianza tra tutti i figli, siano essi nati nel matrimonio o al di fuori di esso [3], in considerazione altresì che l'impugnazione del riconoscimento è addirittura vietata per legge [4] a chi ha dato il consenso alla fecondazione assistita.
Inoltre, sempre secondo i Giudici, tale comportamento costituirebbe una precisa violazione del principio di solidarietà [5], oltre ad essere in contrasto con il principio di autoresponsabilità e con la tutela della buona fede.

La pronuncia si inserisce nella recentissima corrente di pensiero [6] che sostiene con fermezza l'impossibilità di assoggettare tali ipotesi (come quella in esame) alla disciplina di cui all'art.263 cod. civ., ai sensi del quale "il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall'autore del riconoscimento". Tale legittimazione rimane invece in capo a tutti gli altri soggetti previsti dalla norma, ossia a colui che è stato riconosciuto e a chiunque vi abbia interesse.

Il nuovo orientamento si allontana con decisione da quello tradizionale [7], in base al quale l'unica tutela per il figlio riconosciuto in mala fede era costituita da un mero risarcimento del danno derivante dal falso riconoscimento.

In casi come questi, hanno riconosciuto i Giudici, dare prevalenza al principio del favor veritatis porterebbe a legittimare un vero e proprio abuso da parte del falso padre, attribuendogli l'incondizionata e insindacabile facoltà di porre nel nulla il riconoscimento fatto, anche solo per compiacenza, nella allora piena consapevolezza della sua falsità, anche a distanza di molti anni, con innegabile pregiudizio per l'ormai riconosciuto figlio, il quale si vedrebbe all'improvviso privato di un acquisito status, senza averne colpa.

[1] Tribunale di Roma sent. del 17 ottobre 2012
[2] Art. 3 della Costituzione
[3] Art. 30 della Costituzione
[4] L.40 del 19 febbraio 2004
[5] Art.2 della Costituzione
[6] Tribunale di Napoli, 28/04/2000 e Tribunale di Civitavecchia, 19/12/2008 - 23/02/2009
[7] Cass., sent. n.5886 del 24 maggio 1991, in cui la Corte già affermava di essere ben consapevole "che un tale sistema normativo rende in pratica possibile a chiunque di operare, eventualmente per motivi non commendevoli, un riconoscimento non veridico di figlio naturale, sicuro di poterlo mettere nel nulla ad libitum e in qualsiasi momento, essendo accessibile agevolmente la prova della non veridicità dello stato ed imprescrittibile la relativa azione ai sensi del 3 comma dell'art.263 c.c., con la conseguenza che una norma giuridica può pervenire in tal caso a rivestire di legalità un comportamento indiscutibilmente illecito", ma riteneva che tale inconveniente avrebbe potuto essere rimosso solo con l'intervento del legislatore.

STEFANIA SQUEO
MEDIATORE E PRATICANTE AVVOCATO ABILITATA
FORO MILANO
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