Dott. Maurizio Tarantino - Cassazione Penale n. 28603 del 03 luglio 2013 - La prima sentenza della S.C. ad aver trattato il tema del mobbing risale al 1999 (Cass. 19.1.1999, n. 475). Da allora la sezione lavoro ha avuto modo di pronunciarsi più volte sul punto (si vedano ex pl. Cass. 10.1.2012, n. 87, Cass. 31.5.2011, n. 12048 e Cass. 17.2.2009, n. 3705), tanto che oggi è finalmente possibile delineare quelli che sono i presupposti che il lavoratore ha l'onere di allegare e provare affinchè possa legittimamente pretendere ed ottenere il risarcimento del danno da parte del datore di lavoro.

Tali presupposti sono:

- la molteplicità dei comportamenti di carattere vessatorio, illeciti o anche leciti, se considerati singolarmente;

- la sistematicità e la protrazione nel tempo di tali comportamenti;

- l'intento, la volontà diretta alla persecuzione o all'emarginazione del lavoratore (cfr. anche Cass. 21 maggio 2011, n. 12048; Cass. 26 marzo 2010, n. 7382, Trib. Torino 5.5.2011, n. 1398);

- l'evento lesivo della salute o della personalità del lavoratore;

- il nesso di causa tra la condotta ed il pregiudizio.

Particolare rilevanza ha la dimostrazione dell'intento persecutorio posto in essere dal mobber, tanto che, secondo l'orientamento che può dirsi unanime in giurisprudenza, il fenomeno mobbing non può sussistere senza la dimostrazione di una precisa e determinata volontà finalizzata a perseguitare.

Orbene, premesso tutto quanto innanzi esposto, si evidenzia che l'art. 2103 cod. civ. afferma il principio di contrattualità delle mansioni: tale disposizione, così come novellata dall'art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. statuto dei lavoratori), stabilisce, infatti, che «Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. […]. Ogni patto contrario è nullo».

Dunque, il potere del datore (c.d. ius variandi) di modificare in modo unilaterale le mansioni del lavoratore risulta sotanzialmente sottoposto a due condizioni:

a) che le mansioni siano, non già identiche, bensì equivalenti a quelle da ultimo svolte o, se invece superiori, successivamente acquisite; 

b) che la retribuzione da ultimo corrisposta o acquisita non venga a subire alcuna diminuzione.

L'art. 2103 cod. civ. disciplina, quindi, l'esercizio del potere datoriale di gestire le risorse umane all'interno dell'azienda preoccupandosi, a tale scopo, di fissare un requisito minimo di legittimità del mutamento delle mansioni del lavoratore, con l'inequivoca statuizione che i nuovi e diversi compiti devono essere - per lo meno - equivalenti a quelli per i quali questo è stato assunto ovvero, se questi hanno già subito una modificazione, a quelli da ultimo effettivamente svolti.

Ciò premesso, occorre rilevare che la nozione di equivalenza impiegata dal legislatore ha un carattere aperto, indicando di per sé un criterio relazionale generico tra mansioni di provenienza e mansioni di destinazione.

Vero è che sia la dottrina che la giurisprudenza individuano il criterio di valore sul quale modellare il giudizio di equivalenza nella dignità professionale del lavoratore, tuttavia, i contenuti ed i caratteri costitutivi della dignità professionale non hanno contorni precisi e vanno letti in concreto, in stretto rapporto con i dati ambientali del fenomeno regolato.

Ebbene, nel caso prospettato, la Corte di Cassazione sez. penale con la sentenza n. 28603 del  03 luglio 2013 interviene sul tema del mobbing qualificando i comportamenti ed episodi di emarginazione come :  una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell'ambiente lavorativo.

Per parlare di straining è dunque sufficiente una singola azione stressante cui seguano effetti negativi duraturi nel tempo (come nel caso di gravissimo demansionamento o di svuotamento di mansioni). La vittima è in persistente inferiorità rispetto alla persona che attua lo straining (strainer).

La pronuncia in esame, ha riconosciuto ad un dipendente di banca, relegato a lavorare in uno «sgabuzzino, spoglio e sporco», con «mansioni dequalificanti» e «meramente esecutive e ripetitive»  comportamenti complessivamente ritenuti idonei a dequalificarne la professionalità, comportandone il passaggio da mansioni di autonomia decisionale a ruoli di "bassa e/o nessuna autonomia", e dunque tali da marginalizzarne, in definitiva, l'attività lavorativa, con un reale svuotamento delle mansioni da lui espletate.

La Corte puntualizza che, nonostante la situazione del dipendente rappresenti un fatto astrattamente riconducibile alla nozione di "mobbing", sia pure in una sua forma di manifestazione attenuata, nel caso di specie si tratta di "straining".

Infatti secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. "mobbing") possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare (intesa come relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti).

La variazione di tale rapporto, avuto riguardo alla ratìo della fattispecie incriminatrice di cui all'art. 572 c.p., deve essere caratterizzata dal tratto della "familiarità", poichè è soltanto nel contesto di un tale peculiare rapporto di natura para-familiare che può ipotizzarsi, ove si verifichi l'alterazione della sua funzione attraverso lo svilimento e l'umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti

Per tali motivi, gli Ermellini hanno stabilito che, nel delitto di cui all'art. 572 cod. pen. rientrino non soltanto percosse, minacce, ingiurie, privazioni imposte alla vittima, ma anche atti di scherno, disprezzo, umiliazione ed asservimento idonei a cagionare durevoli sofferenze fisiche e morali alla vittima.

Ne consegue che deve essere il giudice di merito ad accertare se i singoli episodi vessatori rimangano assorbiti nel reato di maltrattamenti, oppure integrino ipotesi criminose autonomamente volute dall'agente e, pertanto, concorrenti con il delitto di cui all'art. 572 cod. pen .

Dott. Maurizio Tarantino

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