"Il rifiuto, da parte del lavoratore subordinato, di essere addetto allo svolgimento di mansioni non spettanti può essere legittimo e quindi non giustificare il licenziamento in base al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive enunciato dall'art. 1460 cod. civ., sempre che il rifiuto sia proporzionato all'illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede." Questo il principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 17713 del 19 luglio 2013, ha altresì precisato che "deve considerarsi legittimo il rifiuto opposto da un dipendente di una società che si occupa del commercio e della vendita di alimenti e bevande, e che è articolata sul territorio in più punti vendita, di svolgere il "servizio di permanenza di direzione" di uno di questi punti vendita - servizio che comporta l'assunzione del ruolo di responsabile del punto vendita stesso, nei suoi riflessi anche penalistici - se non è dimostrato che si tratta di un compito rientrante nella qualifica di competenza del lavoratore e che questi ha conoscenze adeguate per il relativo svolgimento." La Suprema Corte ha evidenziato che la Corte territoriale per giungere ad affermare che "il suddetto rifiuto - comunque da valutare nell'ambito del complessivo comportamento del lavoratore, in tutti i suoi elementi soggettivi ed oggettivi, cosa che non risulta essere stata fatta in modo adeguato - era tale da costituire una giusta causa di licenziamento, avrebbe dovuto: a) stabilire se - sulla base della pacifica premessa che il lavoratore non aveva rifiutato lo svolgimento di qualsiasi prestazione lavorativa, ma solo quello di una specifica mansione - tale ultima prestazione era o meno conforme alla qualifica di appartenenza; b) precisare il contenuto della prestazione del "servizio di permanenza di direzione" nell'ambito dell'Ipermercato e le ragioni per le quali ad essa si collega l'eventualità di essere esposti a responsabilità penale; c) verificare se la motivazione del rifiuto - pacificamente non consistente, di per sé, del carattere dequalificante della mansione, ma nel desiderio di evitare il rischio di subire eventuali procedimenti penali, come già accaduto in passato - era da ricercare nell'inadempimento del datore di lavoro, salvo il limite della buona fede e salva la doverosa osservanza delle disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartite dall'imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 cod. civ., da applicare alla stregua del principio sancito dall'art. 41 Cost.". Cassata dunque la sentenza della Corte d'Appello la cui motivazione - secondo i giudici di legittimità - in merito alla sussistenza della giusta causa del licenziamento poggia su lacune e imprecisioni e risulta complessivamente del tutto apodittica e priva della doverosa analisi del comportamento del lavoratore in tutti i suoi aspetti oggettivi e soggettivi, finalizzata a dimostrarne l'idoneità a fare venire meno in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro.
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