di Marco Massavelli - L'autovelox, seppur regolarmente omologato e funzionante, ma posizionato in modo tale da essere occultati agli ignari automobilisti impone la condanna per truffa (articolo 640, codice penale).

E' quanto stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione Penale, sez. II, con la sentenza 23 maggio 2013 n. 22158.

 

Secondo la Corte di Cassazione, infatti, che ha confermato il sequestro penale di sei apparecchi per il rilevamento della velocità, sussiste un rapporto di strumentante tra i beni sequestrati ed il reato di truffa

per cui si procede, considerato che gli autovelox costituiscono lo strumento delle attività illecite accertate ed enunciate nella prospettazione accusatoria (nel caso di specie, infatti, la truffa consiste nella rilevazione della velocità attraverso autovelox posizionati in modo da essere occultati agli ignari automobilisti), a nulla valendo che la res impiegata per commettere la truffa, e cioè l'autovelox,  abbia natura lecita, allorchè assolva, nell'ordito truffaldino, una valenza causale ai fini della realizzazione del reato. Di conseguenza, gli autovelox si prestano, proprio in ragione di tale nesso di interdipendenza con il reato, ad essere assoggettati a vincolo reale sia quale corpo del reato ("le cose ... mediante le quali il reato è stato commesso") sia quale cosa pertinente al reato la cui libera disponibilità può agevolare la commissione di altri reati della stessa specie di quello per cui si procede.

 

Oggetto del sequestro preventivo può essere qualsiasi bene - a chiunque appartenente e, quindi, anche a persona estranea al reato - purchè esso sia, anche indirettamente, collegato al reato e, ove lasciato in libera disponibilità, idoneo a costituire pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato ovvero di agevolazione della commissione di ulteriori fatti penalmente rilevanti. In tal caso, incombe al giudice un dovere specifico di motivazione sul requisito del periculum in mora in termini, tuttavia, di semplice probabilità del collegamento di tali beni con le attività delittuose dell'indagato, sulla base di elementi che appaiano indicativi della loro effettiva disponibilità da parte di quest'ultimo, stante il carattere meramente fittizio della loro intestazione ovvero di particolari rapporti in atto tra il terzo titolare e l'indagato stesso (ex plurimis vedi: Sez. 5^, sentenza n. 11287 del 22/01/2010, rv. 246358).

Nel caso in esame, afferma la Corte di Cassazione, è stato correttamente desunto il collegamento tra il ricorrente ed il reato per cui si procede sulla base di molteplici circostanze di fatto la cui combinazione logica consente di ritenere, in termini di fondata probabilità, che il colpevole "conservi" la disponibilità dei beni in sequestro, a prescindere dall'attuale intestazione formale. Si sono al riguardo valorizzati diversi elementi di carattere "territoriale" (la ditta del ricorrente opera nel medesimo ambito territoriale di quelle degli indagati), di pregressa appartenenza lavorativa (il ricorrente risulta essere stato dipendente della ditta che aveva fornito le apparecchiature che sarebbero state utilizzate per la commissione dei reati), nonchè parentale (con il soggetto che è indicato quale esecutore delle operazioni materiali truffaldine di rilevazione delle infrazioni al codice della strada agli ignari utenti).

Non può quindi escludersi l'esistenza di situazioni che avallino concretamente l'esistenza di una discrasia tra intestazione formale e la disponibilità effettiva del bene, e consentano di ritenere che il terzo abbia accettato la titolarità apparente del bene al solo fine di conservarne l'acquisizione in capo al soggetto indagato e neutralizzare il pericolo della confisca.


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