MEDIAevo n. 31, una rubrica di Paolo M. Storani - La legge su omofobia, il punto di Luca MORASSUTTO, Seconda puntata (la prima del brillante contributo, interamente leggibile anche sul sito Articolo29, sottotitoli "famiglia, orientamento sessuale, identità di genere", è stata pubblicata su Studio Cataldi l'altrieri, 28 agosto 2013). Buona lettura con un caro ringraziamento all'Autore, Avv. Luca Morassutto. Appuntamento a domani per la terza parte.
Il decreto legge 26 aprile 1993 n. 122 conosciuto come decreto legge Mancino, andava a modificare il testo della legge Reale apportando significative modifiche già ravvisabili nell'incipit dell'art. 3 ove si legge: "anche ai fini dell'attuazione della disposizione dell'art. 4 della convenzione".
Sulla scorta di forti tensioni sociali e di recrudescenti manifestazioni di intolleranza il legislatore decideva quindi di intervenire ampliando l'alveo dentro il quale la legge andava ad operare, modificando inoltre lo stesso modus agendi della norma.
L'ambito di tutela veniva quindi esteso anche alle ipotesi di discriminazione attinenti la sfera religiosa.
La norma poi contiene una ulteriore innovazione consistente nella trasposizione a livello di "motivi dell'azione criminosa di quel profilo del fatto tipico che in precedenza veniva costruito mediante il riferimento all'offesa rivolta contro persone perchè appartenenti ad un gruppo nazionale, etnico o razziale"1.
Questa estensione non riguarda di contro la lett. a) prima parte, ove si punisce con la reclusione sino a tre anni "chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico".
La seconda parte della lettera riformata considera le condotte di chi incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi.
L'estensione della tutela alla sfera religiosa va quindi considerata unicamente in rapporto a questa seconda parte ossia all'incitare o al commettere atti di discriminazione non invece al diffondere idee.
Il legislatore pare quindi aver posto una linea di discrimine distinguendo la diffusione di idee dall'incitazione a commettere o il commettere direttamente atti di discriminazione.
Tale linea di discrimine non può essere diversamente individuata se non nel principio di tutela della libera manifestazione del pensiero. La scelta di incriminare la mera diffusione di idee ispirate ad una finalità di tipo razziale era risultata obbligata in quanto espressamente richiamata dalla Convenzione del 1965.
Pare quindi che il legislatore del 1993 non avesse voluto estendere il limite operativo espresso dalla Convenzione per la parte relativa alla diffusione di idee, andando invece a colpire quelle forme di azione contenenti un quid pluris oltre al mero pensiero ossia la commissione (o l'incitamento a commettere).
Agli occhi del giurista appare quindi inevitabile uno scontro tra due diversi orientamenti: da una parte riconoscere massima estensione e nessuna contrazione al diritto di libera manifestazione del pensiero di cui all'art. 21 Cost., dall'altra teorizzare un bilanciamento di tale libertà con altri interessi potenzialmente confliggenti e che non necessariamente debbono soccombere.
Si possono quindi isolare tre tipologie di condotta: 1. la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico; 2. l'incitamento a commettere atti di discriminazione; 3. il commettere atti di discriminazione (questi due ultimi comportamenti dettati da motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi).
L'art. 1 della l. 205/1993 alla lett. b) considera ulteriori 2 condotte e precipuamente: l'incitare a commettere violenza o atti di provocazione alla violenza e il commettere violenza o atti di provocazione alla violenza (anche in questo caso per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi).
Appare ictu oculi evidente come la normativa del 1993 sia di fatto più ampia nell'esame delle condotte penalmente rilevanti rispetto alla precedente legge Reale. La stessa ratio legis è diversa in quanto i contenuti della l. 654/1975 non erano rivolti a colpire direttamente le manifestazioni individuali mosse da intenti discriminatori. L'obiettivo della norma era andare ad evitare che si producessero conseguenze sul piano sociale a seguito delle azioni di istigazione alla discriminazione razziale. Non veniva quindi tutelata la dignità umana violata nel contesto di un rapporto discriminatorio generatosi nei confronti di una persona, quanto piuttosto veniva posto un argine al fine di evitare che in un contesto più grande - un gruppo per l'appunto - vi fosse l'adesione in forma diffusa a dei contenuti razzisti da cui potesse derivare un concreto turbamento per la coesistenza pacifica ed ordinata tra gruppi nazionali o etnici astrattamente antagonistici. Ciò avrebbe quindi di riflesso comportato un pericolo per l'ordine pubblico e conseguentemente avrebbe minato la stabilità dei rapporti sociali e politici. (Autore Luca MORASSUTTO)
Il decreto legge 26 aprile 1993 n. 122 conosciuto come decreto legge Mancino, andava a modificare il testo della legge Reale apportando significative modifiche già ravvisabili nell'incipit dell'art. 3 ove si legge: "anche ai fini dell'attuazione della disposizione dell'art. 4 della convenzione".
Sulla scorta di forti tensioni sociali e di recrudescenti manifestazioni di intolleranza il legislatore decideva quindi di intervenire ampliando l'alveo dentro il quale la legge andava ad operare, modificando inoltre lo stesso modus agendi della norma.
L'ambito di tutela veniva quindi esteso anche alle ipotesi di discriminazione attinenti la sfera religiosa.
La norma poi contiene una ulteriore innovazione consistente nella trasposizione a livello di "motivi dell'azione criminosa di quel profilo del fatto tipico che in precedenza veniva costruito mediante il riferimento all'offesa rivolta contro persone perchè appartenenti ad un gruppo nazionale, etnico o razziale"1.
Questa estensione non riguarda di contro la lett. a) prima parte, ove si punisce con la reclusione sino a tre anni "chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico".
La seconda parte della lettera riformata considera le condotte di chi incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi.
L'estensione della tutela alla sfera religiosa va quindi considerata unicamente in rapporto a questa seconda parte ossia all'incitare o al commettere atti di discriminazione non invece al diffondere idee.
Il legislatore pare quindi aver posto una linea di discrimine distinguendo la diffusione di idee dall'incitazione a commettere o il commettere direttamente atti di discriminazione.
Tale linea di discrimine non può essere diversamente individuata se non nel principio di tutela della libera manifestazione del pensiero. La scelta di incriminare la mera diffusione di idee ispirate ad una finalità di tipo razziale era risultata obbligata in quanto espressamente richiamata dalla Convenzione del 1965.
Pare quindi che il legislatore del 1993 non avesse voluto estendere il limite operativo espresso dalla Convenzione per la parte relativa alla diffusione di idee, andando invece a colpire quelle forme di azione contenenti un quid pluris oltre al mero pensiero ossia la commissione (o l'incitamento a commettere).
Agli occhi del giurista appare quindi inevitabile uno scontro tra due diversi orientamenti: da una parte riconoscere massima estensione e nessuna contrazione al diritto di libera manifestazione del pensiero di cui all'art. 21 Cost., dall'altra teorizzare un bilanciamento di tale libertà con altri interessi potenzialmente confliggenti e che non necessariamente debbono soccombere.
Si possono quindi isolare tre tipologie di condotta: 1. la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico; 2. l'incitamento a commettere atti di discriminazione; 3. il commettere atti di discriminazione (questi due ultimi comportamenti dettati da motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi).
L'art. 1 della l. 205/1993 alla lett. b) considera ulteriori 2 condotte e precipuamente: l'incitare a commettere violenza o atti di provocazione alla violenza e il commettere violenza o atti di provocazione alla violenza (anche in questo caso per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi).
Appare ictu oculi evidente come la normativa del 1993 sia di fatto più ampia nell'esame delle condotte penalmente rilevanti rispetto alla precedente legge Reale. La stessa ratio legis è diversa in quanto i contenuti della l. 654/1975 non erano rivolti a colpire direttamente le manifestazioni individuali mosse da intenti discriminatori. L'obiettivo della norma era andare ad evitare che si producessero conseguenze sul piano sociale a seguito delle azioni di istigazione alla discriminazione razziale. Non veniva quindi tutelata la dignità umana violata nel contesto di un rapporto discriminatorio generatosi nei confronti di una persona, quanto piuttosto veniva posto un argine al fine di evitare che in un contesto più grande - un gruppo per l'appunto - vi fosse l'adesione in forma diffusa a dei contenuti razzisti da cui potesse derivare un concreto turbamento per la coesistenza pacifica ed ordinata tra gruppi nazionali o etnici astrattamente antagonistici. Ciò avrebbe quindi di riflesso comportato un pericolo per l'ordine pubblico e conseguentemente avrebbe minato la stabilità dei rapporti sociali e politici. (Autore Luca MORASSUTTO)
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Civilista e penalista, dedito in particolare
alla materia della responsabilità civile
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