Spesso ho parlato di donne maltrattate o abusate. Così come di padri a cui è stato negato il piacere di crescere i propri figli. Mai ho affrontato il delicato mondo dei minori. Di quelli abusati e maltrattati da adulti senza scrupoli, e indubbiamente senza cuore e cervello.
Questa volta però sono incappata in una storia tristissima di "mala giustizia", nulla di nuovo sul fronte italico, ma quando si tratta di minori fa certamente più specie. È la storia di una ragazzina romana, che i giornali hanno chiamato Francesca, per anni vittima di abusi da parte di un vicino di casa. Abusi iniziati in tenera età (5 anni) e protratti sino al compimento dei dieci anni, da un uomo a cui la bambina veniva affidata dalla madre stessa, quando in necessità. L'uomo, un ex militare, si era da subito trasformato in un orco, nell'incubo della piccola, che aveva iniziato a soffrire anche di tachicardia parossististica e perciò affidata con sempre maggior frequenza per evitarle stress, se la madre aveva impegni o incombenze che avrebbero potuto affaticare in maniera eccessiva la figlia.
Detto ciò, una sintetica premessa per inquadrare il fatto, ecco che nel 2010 la bambina riesce a trovare il coraggio di raccontare alla madre chi sia realmente l'orco del piano di sopra. Viene creduta dalla madre e anche dagli esperti chiamati in campo durante l'indagine. Quindi con rito abbreviato l'uomo viene condannato nel 2011 a tre anni di reclusione. Ora, già sulla durata della pena personalmente nutro dei forti dubbi: come è mai possibile che un crimine così tremendo, come l'abuso di un minore reputo sia, possa essere considerato al pari di un furto? Rovinare l'infanzia e segnare per sempre il percorso di crescita di un essere umano non è forse degno di una pena più dura? Anche se l'imputato ha optato per la formula di giudizio abbreviato. Non applicherei mai uno sconto in casi come questi.
Il peggio però non si limita alla durata della condanna, quanto invece alla decisione assurda presa dal giudice d'appello di revocare il saggio "divieto di dimora" nella stessa casa dove il crimine era stato compiuto, imposto dai colleghi di primo e secondo grado. Che addirittura l'avevano estesa a tutto il Lazio, ad eccezione di Vitinia, dove l'uomo ha una casa di proprietà. La dimora incriminata era infatti una casa in affitto. Perché dunque non mantenere questa restrizione più che lecita? Purtroppo questi sono casi in cui parlare di cattiva giustizia fa molto meno clamore che non farlo riferendosi ad un settantenne ex Presidente del Consiglio condannato per evasione. Eppure qui sono in gioco la stabilità ed il benessere mentale di una ragazzina, che con terrore ha vissuto il rientro del suo aguzzino. Che non può capire i meccanismi cavillosi della nostra (in)giustizia, che a fatica potrà avere fiducia nel sistema.
Personalmente lo trovo molto grave. E invoco, come molti giuristi e avvocati, la possibilità di introdurre una giurisprudenza psico-sociale, fusione di legge e analisi approfondita delle dinamiche psicologiche e sociologiche che portano ad un crimine, ma soprattutto di ciò che potrebbe causare un giudizio, non solo sull'autore, ma anche sulla vittima. Che spesso mi pare messa in secondo piano, quando addirittura non stigmatizzata. Parlando poi di minori, la portata delle responsabilità di tutte le figure coinvolte (dalle forze dell'ordine ai medici, dagli psicologi ai giudici) è veramente considerevole. Un impegno che può trasformarsi in un fardello per la vittima, un macigno da portare con sé per sempre. Che potrà, se mal speso, danneggiare la sua stabilità emotiva e la sua possibilità di relazionarsi. Una vita distrutta su tutti i fronti.
Rammentando che la giustizia e le pene hanno lo scopo di recuperare e correggere gli individui che commettono un reato, sarebbe altresì auspicabile che si impegnino anche a riabilitare ed aiutare le vittime. Questo il mio semplice pensiero.
barbaralgsordi@gmail.it
Questa volta però sono incappata in una storia tristissima di "mala giustizia", nulla di nuovo sul fronte italico, ma quando si tratta di minori fa certamente più specie. È la storia di una ragazzina romana, che i giornali hanno chiamato Francesca, per anni vittima di abusi da parte di un vicino di casa. Abusi iniziati in tenera età (5 anni) e protratti sino al compimento dei dieci anni, da un uomo a cui la bambina veniva affidata dalla madre stessa, quando in necessità. L'uomo, un ex militare, si era da subito trasformato in un orco, nell'incubo della piccola, che aveva iniziato a soffrire anche di tachicardia parossististica e perciò affidata con sempre maggior frequenza per evitarle stress, se la madre aveva impegni o incombenze che avrebbero potuto affaticare in maniera eccessiva la figlia.
Detto ciò, una sintetica premessa per inquadrare il fatto, ecco che nel 2010 la bambina riesce a trovare il coraggio di raccontare alla madre chi sia realmente l'orco del piano di sopra. Viene creduta dalla madre e anche dagli esperti chiamati in campo durante l'indagine. Quindi con rito abbreviato l'uomo viene condannato nel 2011 a tre anni di reclusione. Ora, già sulla durata della pena personalmente nutro dei forti dubbi: come è mai possibile che un crimine così tremendo, come l'abuso di un minore reputo sia, possa essere considerato al pari di un furto? Rovinare l'infanzia e segnare per sempre il percorso di crescita di un essere umano non è forse degno di una pena più dura? Anche se l'imputato ha optato per la formula di giudizio abbreviato. Non applicherei mai uno sconto in casi come questi.
Il peggio però non si limita alla durata della condanna, quanto invece alla decisione assurda presa dal giudice d'appello di revocare il saggio "divieto di dimora" nella stessa casa dove il crimine era stato compiuto, imposto dai colleghi di primo e secondo grado. Che addirittura l'avevano estesa a tutto il Lazio, ad eccezione di Vitinia, dove l'uomo ha una casa di proprietà. La dimora incriminata era infatti una casa in affitto. Perché dunque non mantenere questa restrizione più che lecita? Purtroppo questi sono casi in cui parlare di cattiva giustizia fa molto meno clamore che non farlo riferendosi ad un settantenne ex Presidente del Consiglio condannato per evasione. Eppure qui sono in gioco la stabilità ed il benessere mentale di una ragazzina, che con terrore ha vissuto il rientro del suo aguzzino. Che non può capire i meccanismi cavillosi della nostra (in)giustizia, che a fatica potrà avere fiducia nel sistema.
Personalmente lo trovo molto grave. E invoco, come molti giuristi e avvocati, la possibilità di introdurre una giurisprudenza psico-sociale, fusione di legge e analisi approfondita delle dinamiche psicologiche e sociologiche che portano ad un crimine, ma soprattutto di ciò che potrebbe causare un giudizio, non solo sull'autore, ma anche sulla vittima. Che spesso mi pare messa in secondo piano, quando addirittura non stigmatizzata. Parlando poi di minori, la portata delle responsabilità di tutte le figure coinvolte (dalle forze dell'ordine ai medici, dagli psicologi ai giudici) è veramente considerevole. Un impegno che può trasformarsi in un fardello per la vittima, un macigno da portare con sé per sempre. Che potrà, se mal speso, danneggiare la sua stabilità emotiva e la sua possibilità di relazionarsi. Una vita distrutta su tutti i fronti.
Rammentando che la giustizia e le pene hanno lo scopo di recuperare e correggere gli individui che commettono un reato, sarebbe altresì auspicabile che si impegnino anche a riabilitare ed aiutare le vittime. Questo il mio semplice pensiero.
barbaralgsordi@gmail.it
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