di Barbara Luzi - La Corte di Cassazione, sez. V penale, con la sentenza n° 23495 del 03 giugno 2013, ha condannato un soggetto per il delitto di violenza privata perché aveva impedito alla parte offesa di procedere con la marcia a bordo del suo mezzo parandosi di fronte ad esso.
La Corte di Appello di Catania aveva confermato la sentenza di condanna del Tribunale di Catania per i delitti di violenza privata e minacce.
Il Giudice di merito, infatti, aveva correttamente inquadrato il comportamento del condannato sulla base di idonee risultanze probatorie acquisite nei giudizi precedenti rendendo superflua una eventuale integrazione istruttoria richiesta dal legale della parte ricorrente.
Così come la Suprema Corte non poteva chiaramente esperire una nuova attività istruttoria atteso che questa è stata già correttamente svolta e risulta evidenziata nella motivazione della sentenza. Anche le doglianze relative alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena e alla pretesa tardività della querela sono da respingere in quanto generiche e prive di valore probatorio.
Il quinto motivo, relativo alla violazione di legge e mancanza di motivazione in ordine al reato di violenza privata in danno della parte lesa è infondato perché nella giurisprudenza della Corte integra gli estremi del delitto "la minaccia, ancorché non esplicita, che si concreti in un qualsiasi comportamento o atteggiamento idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di un danno ingiusto al fine di ottenere che, mediante la detta intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare o ad omettere qualcosa".
Dall'esame dell'operato della Corte territoriale si è potuto evincere che risultava chiaro tale comportamento da parte dell'individuo condannato "non avendo la parte lesa potuto proseguire la sua marcia con il motorino in conseguenza del comportamento dell'imputato, paratosi avanti lo stesso". In quel frangente lo stesso personaggio procedeva anche a minacciare la parte lesa con l'espressione "...avrebbe saputo lui come fargliela pagare cara".
Per questi motivi la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Barbara Luzi - barbaraluzi@libero.it
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