L'imputato che, dopo il compimento dell'atto d'ufficio di un pubblico ufficiale, si limita a contestare il modo di agire di quest'ultimo, anche in modo minaccioso, non compie reato di resistenza a pubblico ufficiale. Reato invece ravvisabile, stabilisce la sentenza della Corte di Cassazione n° 36367 del 5 settembre 2013, quando la violenza e le minacce, elementi costitutivi dello stesso, sono reali e finalizzati ad impedire o ostacolare l'azione del pubblico ufficiale.
La sesta sezione penale della Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso presentato dal difensore di L.A. contro la pena pecuniaria di euro 4.560 inflitta al suo assistito per il reato all'art. 337 c.p. dalla Corte d'appello di Lecce il 18 luglio 2012, ha annullato la sentenza impugnata. Sentenza che aveva tramutato in multa la pena detentiva inflitta all'imputato dal Tribunale di Taranto il 30 novembre 2011 per aver mosso critiche e rimostranze agli agenti dopo che questi avevano redatto un verbale di contravvenzione per violazione del codice della strada.
La Suprema corte, dopo aver specificato che le ingiurie e le opposizioni sollevate dall'imputato al pubblico ufficiale, per quanto disdicevoli, configurano una dura reazione all'attività da esso già espletata, non finalizzate dunque ad impedirne l'operato o spingerlo ad omettere atti d'ufficio, ha sottolineato che la sua condotta non può ritenersi idonea né ad integrare il reato di resistenza a pubblico ufficiale, né di oltraggio ai sensi dell'art. 341 c.p., già abrogato all'epoca dei fatti, riqualificandosi dunque come il più generale reato di ingiuria ai sensi dell'art. 594 c.p., per la cui procedibilità è necessaria querela da parte della persona offesa. Ricondotta la fattispecie in termini di ingiuria e preso atto della mancanza di querela, la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata.
La sesta sezione penale della Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso presentato dal difensore di L.A. contro la pena pecuniaria di euro 4.560 inflitta al suo assistito per il reato all'art. 337 c.p. dalla Corte d'appello di Lecce il 18 luglio 2012, ha annullato la sentenza impugnata. Sentenza che aveva tramutato in multa la pena detentiva inflitta all'imputato dal Tribunale di Taranto il 30 novembre 2011 per aver mosso critiche e rimostranze agli agenti dopo che questi avevano redatto un verbale di contravvenzione per violazione del codice della strada.
La Suprema corte, dopo aver specificato che le ingiurie e le opposizioni sollevate dall'imputato al pubblico ufficiale, per quanto disdicevoli, configurano una dura reazione all'attività da esso già espletata, non finalizzate dunque ad impedirne l'operato o spingerlo ad omettere atti d'ufficio, ha sottolineato che la sua condotta non può ritenersi idonea né ad integrare il reato di resistenza a pubblico ufficiale, né di oltraggio ai sensi dell'art. 341 c.p., già abrogato all'epoca dei fatti, riqualificandosi dunque come il più generale reato di ingiuria ai sensi dell'art. 594 c.p., per la cui procedibilità è necessaria querela da parte della persona offesa. Ricondotta la fattispecie in termini di ingiuria e preso atto della mancanza di querela, la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata.
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