Dott. Aldo Di Virgilio - Funzionario Amministrativo presso AUSL Lanciano/Vasto/Chieti
Un interessante articolo scritto da Massimiliano Gioncada e Simonetta Carboni ("Rette RSA, contratti d'inserimento e Comuni dopo le recenti pronunce del giudice amministrativo", Servizi Sociali Oggi, 14/3, 2009, ppgg 45-48), offre lo spunto per approfondire una tematica di estremo interesse, nella considerazione di quanto si ricorra con maggiore frequenza, soprattutto negli ultimi anni, a forme di assistenza che escludano la permanenza nel loro domicilio degli anziani, ovverosia presso residenze socio-assistenziali o socio-sanitarie.
Viene esaminato, nello specifico, l'accesso in tali modalità abitative non di una tipologia di anziano qualsiasi, bensì di tutte quelle persone ultrasessantacinquenni che versano in uno stato di bisogno di natura prettamente economica, bisogno originato da ristrettezze già presenti al momento del ricovero o intervenute in seguito.
I soggetti interessati sono, come d'abitudine, l'anziano, i congiunti rientranti in una cerchia piuttosto ristretta di parentela (coniugi, figli, nipoti), la struttura ospitante ed il Comune, coincidente o meno con quello ove la struttura è ubicata, a seconda che l'ingresso sia avvenuto in costanza di iscrizione anagrafica presso il primo od il secondo.
Per esemplificare la casistica afferente gli argomenti che in seguito verranno affrontati, possiamo dire che spesso i parenti stretti, non essendo nella possibilità di assicurare un'assistenza adeguata nel proprio domicilio ad un anziano congiunto, optano per una sua sistemazione alternativa, e poiché costui, a causa dell'età avanzata, potrebbe soffrire una delle tante patologie senili ricorrenti (alzheimer, parkinson, ecc.), sottoscrivono per conto di costui, senza magari nemmeno averne titolo legale (sentenza di interdizione o di amministrazione di sostegno), un contratto di c.d. "inserimento" con la struttura residenziale ospitante, concernente, per parte privata, l'accredito di un canone mensile, che nel caso qui trattato ha valore di retta per la sola ospitalità alberghiera, senza alcun coinvolgimento dell'Azienda Sanitaria Locale.
Può tuttavia succedere che l'anziano, da indagini effettuate a posteriori, risulti non in grado di affrontare le spese discendenti dalla degenza; urge allora determinare quale sia il soggetto tenuto al versamento della retta alberghiera del paziente, da scegliersi tra il Comune di residenza del ricoverato (a ciò tenuto per espressa previsione del DPCM 14.2.2001 che ne prevede la partecipazione proporzionalmente alle sostanze dei cittadini), ed i congiunti sottoscriventi i contratti.
Orbene, nel caso in cui si verifichi un'insolvenza per stato di bisogno in un'ospite anziano, la casa di riposo od RSA potrà rivolgersi direttamente al Comune, senza poter esercitare alcun potere di escussione sui citati congiunti sottoscriventi il contratto d'inserimento.
Non sono stati valutati i profili di annullabilità/nullità scaturiti dal mero aspetto psicologico dei sottoscriventi, i quali sovente ignorano le opzioni alternative quali l'assistenza domiciliare, benché il "beneficiario" sia esente da trattamenti sanitari obbligatori; nella semplice convinzione che la permanenza nel domicilio di un anziano "solo", possa configurare ipotesi di responsabilità per mancata sorveglianza. Gli autori hanno richiamato, invece, quei profili di annullabilità/nullità scaturiti dalla normativa.
Per parte mia, in questa sede, dopo una breve sintesi del citato articolo, mi limiterò a risalire, attraverso l'analisi di una recente sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, n° 2810 del 5.05.2009, alle ragioni di opportunità che potrebbero spingere all'individuazione, nel Comune, del soggetto principalmente tenuto al pagamento alle spese di degenza alberghiera per un anziano versante in stato di bisogno.
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Laddove si manifesti la suddetta evenienza, i Comuni invocano la responsabilità dei sottoscriventi in virtù dell'art. 433 c.c., che dispone l'obbligo degli alimenti nei confronti del beneficiario, per quanto figli o nipoti non debbano surrogarsi nel pagamento della retta per conto del Comune, essendo costoro tenuti agli alimenti solo ed esclusivamente nei confronti del diretto interessato. Sarebbe a dire che da un lato abbiamo l'anziano, titolare del diritto, e dall'altro i parenti, titolari dell'obbligo, per cui in astratto costoro potrebbero benissimo restare inerti nell'attesa che l'avente diritto richieda l'esecuzione delle proprie pretese giudizialmente tramite una "causa alimentare". Ciò, perché il diritto agli alimenti è incedibile, irrinunciabile, intransigibile ed intrasmissibile, sia dal lato attivo che da quello passivo. D'altronde, l'art. 2, comma 6 del d.lgs. 109 del 1998, nel richiamare la disciplina relativa agli alimenti contenuta nell'art. 433, chiarisce che i contenuti di questo non possono essere interpretati nel senso di attribuire le prerogative da esso discendenti agli enti locali, così come previsto dal successivo art. 438 cc comma 1 ("Gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento"). Ne consegue, a detta dei due autori sopra citati, sia il difetto di legittimazione attiva dei Comuni a livello sostanziale (essendo infatti esclusi dai soggetti titolari ex art. 433 cc), sia la loro legittimazione a livello processuale, non potendo costringere alcuno dei debitori alla concreta erogazione degli alimenti.
L'attività dei Servizi Sociali dei Comuni allora potrebbe avere efficacia nei confronti dei tenuti agli alimenti, solo ove si estrinsecasse nell'intermediazione, cioè in un tentativo condotto in via stragiudiziale, teso a convincere in via bonaria ad effettuare il versamento degli alimenti (alias, retta di degenza alla struttura di accoglienza) oppure, ove i tenuti agli alimenti risultino renitenti, nello spingere l'alendo verso l'esperimento dell'azione giudiziale per ottenere la quota utile ad ovviare al suo stato di bisogno, che si auspica sfoci in una condanna all'erogazione economica. Il Comune insomma in questa vicenda non può che rivestire un ruolo di "catalizzatore", difettandogli la possibilità di intervenire sui "tenuti agli alimenti" nei confronti dei quali sono carenti di qualsiasi posizione soggettiva attiva. Fatta salva, ovviamente, l'evenienza che costoro trattengano illegittimamente cespiti patrimoniali di cui gli anziani in stato di bisogno siano titolari, e che dunque potrebbero essere utilizzati, in tutto od in parte, per il pagamento della retta medesima. Viceversa, i Comuni debbono in ogni caso intervenire ad integrare la retta, in forza di precise disposizioni legislative, in favore dei soggetti bisognosi, come da ultimo stabilito negli arttt. 6 e 22 della legge 328/2000. Addirittura, secondo il TAR Lombardia, Brescia, 28 novembre 2008 n° 536, "Non sembra sostenibile la tesi che l'integrazione comunale sia dovuta negli ordinari limiti della disponibilità di bilancio".
Il Comune, astrattamente, nel caso in cui i parenti obbligati agli alimenti siano in grado, dal punto di vista economico, a versarli, potrebbe intentare un'azione legale tesa al recupero di quanto erogato a titolo di retta, ma non si capisce quale possa essere oggi lo strumento normativo fungente da base legittimante, alla luce del fatto che l'unica norma contenente un'azione di rivalsa nei confronti dei parenti, la legge 3 dicembre 1931 n° 1580, è stata abrogata dall'art. 24 del decreto legge 25 giugno 2008 n° 112 (convertito attraverso la legge 6 agosto 2008 n° 133), con decorrenza 31 dicembre 2008.
Situazione, questa, di ancor più difficile soluzione per i Comuni, nella considerazione che i parenti, all'infuori degli alimenti, non hanno alcun altro obbligo giuridico nei confronti dell'alendo (parente anziano), nemmeno nel caso in cui si tratti del proprio genitore. Infatti, sembra arduo il richiamo all'art. 591 c.p. (concernente il delitto di abbandono di persone minori od incapaci), che si concretizzerebbe solo ove intervenga un obbligo di custodia, la sussistenza di incapacità dell'alendo ed il concretizzarsi di una situazione di pericolo.
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Con sentenza n° 2810 del 5.05.2009 il Consiglio di Stato, Sezione V, ha stabilito che, in materia di ricovero di infermi di mente, si deve ritenere che l'onere delle spese, per chi sia privo di mezzi, incomba sul Comune di soccorso, ossia del Comune di residenza alla data dell'ingresso, ove il ricovero abbia natura di assistenza sociale.
Nel caso di specie il Comune Z, dopo aver assunto per numerosi di anni l'onere di spesa discendente dal ricovero del signor X, infermo di mente, presso l'istituto Y, ha deciso di interrompere l'erogazione economica ritenendo che fosse venuto meno lo stato di bisogno del ricoverato, detentore, ad avviso comunale, di risorse tali da farvi fronte autonomamente.
L'Istituto con ricorso al TAR, chiedeva emissione di decreto ingiuntivo nei confronti del Comune, al quale il tribunale diede seguito rigettando l'opposizione medio tempore sollevata dal Comune Z.
Il TAR motivò la propria decisione adducendo che il comune su cui grava l'onere della prestazione di natura socio-assistenziale (quello, appunto, dove l'assistito aveva la residenza prima del ricovero) esercita l'azione di rivalsa nei confronti degli obbligati, sicché è ininfluente che il tutore dell'assistito si fosse sottratto al pagamento delle rette.
Al di là della conferma di quanto già sostenuto dal TAR, il massimo consesso si sofferma sulla questione più generale che le viene sottoposta, e cioé se il comune sia tenuto a pagare l'istituto di ricovero, salvo rivalsa totale o parziale verso il ricoverato o verso le persone tenute al suo mantenimento (quando, s'intende, tali persone non provvedano spontaneamente al pagamento delle rette); o se invece gravi sull'istituto l'onere d'informarsi sulle condizioni economiche del ricoverato, di ricercare le persone eventualmente tenute al mantenimento, di determinare la quota a carico di ciascuna di loro e di escuterle. Così posta la questione, essa viene risolta dando all'istituto Y la facoltà di richiedere il pagamento del ricovero, in ogni caso, al comune di soccorso. I giudici considerano, da una parte, che le strutture di accoglienza hanno necessità di ricevere subito il denaro delle rette, con cui devono provvedere alla cura di persone, le quali non possono certo essere dimesse per mancato pagamento; dall'altra che l'amministrazione di tali istituti non può essere gravata di incombenti che non le sono connaturali. Laddove è il comune di residenza del ricoverato a conoscere, normalmente, la situazione economica e familiare del ricoverato e ad avere, in ogni caso, i mezzi e gli uffici idonei per effettuare le ricerche e ottenere le certificazioni eventualmente occorrenti, come dimostra il caso in esame. Oltre al fatto che, come pure è nel caso in esame, può esser necessario che il comune debba determinare la quota di spesa a proprio stesso carico e quella per la quale rivalersi.
Se ne evince, per concludere, che la ratio del rendere non i soggetti privati (siano essi l'alendo, i tenuti agli alimenti o i parenti a vario titolo intervenuti nell'ingresso) ma il Comune il principale debitore della retta alberghiera da erogarsi alla struttura, risiede nelle particolari potestà pubbliche che si assommano in capo all'ente locale, e che gli consentono di trasferire velocemente le risorse economiche necessarie alle RSA o case di riposo, risorse senza le quali è messa a repentaglio la permanenza stessa degli anziani in loco. Sarebbe dunque opportuno che il legislatore codifichi presto la posizione del Comune nell'ambito dei c.d. contratti d'inserimento, in modo da evitare gli equivoci discendenti dall'attuale, ambiguo assetto di rapporto triangolare, per trasformarlo invece in un più chiaro rapporto bilaterale tra struttura residenziale e Comune, fatta salva la possibilità, in capo a questo ente, di poter fare ricorso a sicuri strumenti di escussione automatici laddove si rilevi la capienza reddituale del beneficiario.
Dott. Aldo Di Virgilio - Funzionario Amministrativo presso AUSL Lanciano/Vasto/Chieti