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Chi non ricorda "I love shopping" il film americano del 2009 in cui la protagonista (Becky), interpretata da Rebecca Bloomwood, è letteralmente ossessionata dallo shopping? Becky vorrebbe scrivere per una nota rivista di moda mentre dovrà accontentarsi di lavorare per una rivista economica "Far fortuna risparmiando". Che dire legge del contrappasso? Insomma essere una "shopaholic" potrebbe comportare dei guai! Anche giudiziari.
Un bel guaio per noi donne che, ammettiamolo, amiamo tutte lo shopping, lo consideriamo terapeutico, un modo per alleviare piccoli malumori o insoddisfazioni.
Quello che bisogna evitare però è che tutto questo si trasformi in una 'patologia' che è appunto lo "shopping compulsivo" perchè secondo una recente sentenza della Cassazione la n.25842 del 18 novembre 2013, la separazione può essere addebitata alla moglie che risulta affetta da "shopping compulsivo".
Secondo la Corte pur trattandosi di un disturbo della personalità cio' non esclude la colpa della donna.
E' bene precisare che :l'art.151 del codice civile prevede che il giudice, pronunciando la separazione, dichiara a quale dei coniugi essa sia addebitabile in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri derivanti dal matrimonio.
L'addebito della separazione è, dunque, una sorta di sanzione contro la violazione dei doveri familiari e coniugali.
Ne consegue che, l'intollerabilità della prosecuzione delle convivenza fra i coniugi diviene il presupposto essenziale e sufficiente per la pronuncia della separazione legale.
La vicenda vede come protagonista una donna cinquantottenne alla quale il Tribunale di Pisa aveva riconosciuto il diritto a ricevere dall'ex marito l'assegno di mantenimento pari ad Euro 2000,00.
In appello però alla donna era stata attribuita la colpa del crac familiare per via sei suoi acquisti fuori controllo e, per questo, le veniva revocato l'assegno di mantenimento.
La donna, ricorrendo in Cassazione, sosteneva di non essere "imputabile" e, dunque, colpevole del fallimento della sua unione coniugale dal momento che la consulenza tecnica aveva evidenziato che era affetta da un disturbo della personalità che la spingeva a spendere senza controllo.
La Suprema Corte, invece, riteneva che i comportamenti della donna "configuravano violazione dei doveri matrimoniali, ai sensi dell'art. 143 c.c.". perché anche se era emersa dalle considerazioni della C.T.U., che aveva utilizzato il test di "Rorscharch, la sindrome da shopping compulsivo,(caratterizzata da un impulso irrefrenabile ed immediato ad acquistare beni mobili, vestiti, borse, gioielli, spendendo somme di volta in volta più ingenti) era, altresì, emerso che
la donna appariva "lucida ed orientata nei parametri spazio temporali nei confronti delle persone e delle cose, disponibile al colloquio, curata nell'aspetto", oltre a essere "perfettamente conscia della sua patologia".
Tutte queste risultanze avevano escluso la non imputabilità, che pure può conseguire ad alcune forme di nevrosi.
Gli Ermellini, in definitiva, concludevano per la "piena imputabilità" della signora sostenendo che "sicuramente i comportamenti riscontrati configuravano la violazione dei doveri matrimoniali".
Per queste ragioni, il ricorso della donna veniva rigettato mentre veniva confermato sia l'addebito della separazione alla moglie sia la revoca dell'assegno di mantenimento.