di Licia  Albertazzi - Corte di Cassazione Civile, sezione lavoro, sentenza n. 27138 del 4 Dicembre 2013. La professione di medico, per la natura propria delle attività che il soggetto espleta durante l'orario lavorativo, è spesso oggetto di disputa circa il reale inquadramento della stessa entro i confini del lavoro subordinato piuttosto che dell'autonomo. In tutte le sue pronunce in merito a tale problematica la Cassazione ha statuito che i criteri che il giudice deve adottare al fine di stabilire se il rapporto di lavoro posto in essere sia di tipo subordinato o autonomo sono essere i seguenti: orario di lavoro fisso; obbligo di lasciar traccia della propria presenza (ad esempio, a mezzo badge elettronico); presenza di autorità disciplinare superiore; vincoli in merito alla fruizione delle ferie; generale assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro. La scriminante fattuale principale è costituita dal fatto che all'interno delle cliniche private i medici sono sottoposti a direttive provenienti dalle stesse case di cura, nonché a rispettare turni di lavoro ed orari imposti dall'amministrazione del personale. In altri casi, tuttavia, secondo la giurisprudenza l'esercizio di potere gerarchico, l'esistenza di orari di visita predeterminati o controlli disposti dalle strutture sanitarie non sono stati considerati elementi sufficienti a rilevare la presenza di rapporti di lavoro di tipo subordinato. Quale allora il principio che il giudice deve applicare per valutare la sussistenza o meno di vincolo di subordinazione?

La risposta è fornita dalla presente pronuncia, fornita dalla Cassazione a seguito di impugnazione di sentenza

d'appello confermante la sussistenza di vincolo di subordinazione tra due medici, di cui uno titolare e gestore di diverse case di cura private. Nel caso in oggetto tale distinzione si rivela fondamentale al fine di decidere in merito all'applicazione dell'art. 36 della Costituzione (in particolare, relativamente ad un adeguamento della retribuzione): se i medici sono considerati dipendenti della casa di cura, allora il giudice del lavoro ben potrà prendere come riferimento il contratto collettivo di settore, strumento utile per determinare il contenuto al diritto alla retribuzione. In definitiva la presenza o meno del vincolo di subordinazione deve essere affermata sulla base dell'assetto organizzativo aziendale: se i poteri della struttura si risolvono in una mera esigenza di coordinamento dell'attività dei medici o se, al contrario, l'azienda risulta direttamente responsabile nei confronti dei clienti-pazienti per le prestazioni erogate dai medici, prestazioni considerate direttamente come proprie e non per conto altrui.
"La sussistenza o meno della subordinazione deve essere verificata in relazione all'intensità della etero organizzazione della prestazione sanitaria, al fine di stabilire se l'organizzazione sia limitata ad un mero coordinamento dell'attività del medico con quella dell'impresa, oppure ecceda le esigenze di coordinamento per dipendere direttamente e continuativamente dall'interesse dell'impresa, responsabile nei confronti dei clienti di prestazioni assunte come proprie e non della sola assicurazione per prestazione altrui". Alla luce di tale principio il giudice del merito deve risolvere la questione proposta, in merito alla qualificazione del rapporto di lavoro intercorrente tra medici (di cui uno gestore di diverse case di cura). Se, come nel caso di specie, il giudice motiva adeguatamente la propria decisione, tale procedimento logico, ove non affetto da irragionevolezza, non può essere sindacato in sede di legittimità. In tal modo, anche se accolto per altri motivi (modalità di calcolo dei conguagli contributivi e della tredicesima) il ricorso viene respinto in punto di domanda di riforma della statuizione del giudice d'appello.


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