Di Maurizio Tarantino
Cassazione Civile n. 24181 del 25 ottobre 2013.
Il rapporto di lavoro subordinato cessa per risoluzione, licenziamento, dimissioni e per mutuo consenso secondo le disposizioni del codice civile in materia di contratti in generale.
La configurabilità per concorde volontà trova fondamento nel primo comma dell'art. 1372 del codice civile secondo cui il contratto può essere sciolto per mutuo consenso o per altre cause ammesse dalla legge.
Al riguardo la giurisprudenza di legittimità ha sempre ammesso la possibilità di ritenere risolto consensualmente il contratto di lavoro anche in presenza di comportamenti significativi tenuti dalle parti; particolarmente di quei comportamenti coerenti alla situazione giuridica di inesistenza del rapporto.
Trattasi di un principio più volte affermato in relazione alla frequente evenienza della scadenza del termine illegittimamente apposto al contratto, con cessazione di funzionalità di fatto; e quindi, con modalità tali da rilevare il completo disinteresse delle parti alla sua attuazione, del mutuo consenso, in ordine alla cessazione di esso. (Cfr. Cass. 3212/1990, Cass. 2463/1989 e Cass. 340/1987).
È però anche vero che la Suprema Corte ha precisato che non è consentito attribuire effetti negoziali alla mera inerzia, dovendo il Giudice del merito individuare gli elementi che inducono a ritenere perfezionata la fattispecie, accertata con particolare rigore; ed ove non contenuta in atto formale, deve risultare da comportamento inequivoco che evidenzi il completo disinteresse di entrambe le parti alla prosecuzione del rapporto. (Cass. 3034/1989).
Orbene, premesso quanto innanzi esposto, nel caso de quo la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 24181 del 25 ottobre 2013 ha ritenuto che grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l'onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro e, soprattutto, che la risoluzione non sia dovuta ad unilaterale volontà del datore di lavoro.
Nel caso in esame, la Corte d'Appello di Cagliari, in riforma della sentenza del tribunale, ha respinto la domanda proposta dalla dipendente della compagnia aerea come impiegata di terzo livello presso l'aeroporto, volta ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimato con telegramma del 22 febbraio 2002. Invero, nel dicembre 2001 la compagnia aerea aveva perso la tratta assegnata alla società Air One, con conseguente possibilità per l'azienda di licenziare il personale addetto allo scalo avendo, tra l'altro, la società pochi mesi prima denunciato lo stato di crisi con esubero di 152 dipendenti su scala nazionale. A seguito di trattative a livello sindacale e con intervento del ministro dei trasporti, la società aveva concluso un accordo che prevedeva che il personale addetto allo scalo con esclusione di cinque funzionali supervisori, sarebbe passato alle dipendenze della società Air One per il tramite della società con salvaguardia dei livelli economici acquisiti, con liquidazione del trattamento di fine rapporto salva richiesta di trasferimento alla nuova azienda.
A seguito di detto accordo la società con telegramma del 17 febbraio 2002 aveva comunicato ai 37 dipendenti operanti presso l'aeroporto l'impossibilità di utilizzare ulteriormente la loro prestazione tenuto conto dell'obbligo della società Air One di procedere immediatamente all'assunzione.
La dipendente era transitata pertanto alla società Air One mantenendo inalterato il trattamento retributivo ma aveva impugnato il licenziamento lamentando l'inosservanza della procedura di cui alla legge n. 223 del 1991. Secondo la Corte territoriale non era configurabile un licenziamento collettivo, ma un licenziamento in attuazione dell'accordo intervenuto con Air One; inoltre la stessa Corte evidenziava che la ricorrente non aveva contestato immediatamente il licenziamento facendovi acquiescenza, ricevendone il trattamento di fine rapporto e prestato immediatamente servizio con la nuova società.
A tal riguardo, i giudici della suprema Corte hanno sottolineano che la Corte d'Appello aveva affermato che si trattava di un "licenziamento in attuazione dell'accordo sul passaggio di personale", introducendo in tal modo una fattispecie nuova di recesso.
Osservano gli ermellini, inoltre, che non era ravvisabile una risoluzione consensuale del contratto di lavoro ovvero una cessione dello stesso contratto ad altra azienda, atteso che in entrambi i casi mancava un'espressa ed inequivoca volontà di accettazione da parte della lavoratrice non desumibile dal impugnazione del licenziamento dopo circa due mesi ma nel rispetto del termine di decadenza.
Concludendo, gli Ermellini, in riforma della sentenza impugnata, hanno ritenuto che affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo e, comunque, grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l'onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro .
Dott. Maurizio Tarantino
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