Dott. Federico Mauri - La normativa in materia di rifiuti, come più in generale l'intera disciplina del diritto dell'ambiente, è un ambito in continua evoluzione in quanto strettamente legato all'evolversi delle problematiche ambientali e delle conseguenti soluzioni tecnologiche e scientifiche.
Un aspetto di non secondaria importanza riguarda la distinzione fra "rifiuto" e "sottoprodotto" così come risultante dalla novella operata dal d. lgs. 205/2010 sul cd. Codice dell'Ambiente (D. lgs. 152/2006), principale fonte normativa in materia di rifiuti.
Ai sensi dell'art. 183 co. 1 lett. a) del Codice, si definisce rifiuto "qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi".
L'art. 184 bis co. 1 del medesimo Codice individua invece le caratteristiche proprie del sottoprodotto: "a) la sostanza o l'oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto; b) è certo che la sostanza o l'oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; c) la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; d) l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana". Tutti i sopracitati requisiti devono essere posseduti contestualmente.
Nonostante queste precisazioni ad opera del legislatore, la distinzione fra queste due definizioni è ancora piuttosto labile ed ambigua con riferimento ad alcune sostanze di dubbia classificazione.
In una recente sentenza il Consiglio di Stato (Sez. IV, n. 4151 del 6 agosto 2013) si è pronunciato su un ricorso ove, fra le varie censure sollevate, ve n'era anche una relativa all'inquadramento giuridico della fresatura d'asfalto, ossia al materiale derivante dalla rimozione dell'asfalto che ricopre il fondo stradale.
Uno degli appellanti, muovendo dalla classificazione del fresato d'asfalto come rifiuto speciale (codice CER 17.0.002 - materiale di demolizione) e considerando che il sottoprodotto è principalmente una sostanza originata da un processo di produzione di cui costituisce parte integrante pur non essendone lo scopo primario, ha ritenuto che il fresato d'asfalto non fosse un prodotto originato da un processo produttivo bensì un materiale di risulta ricavato dalla demolizione di fondi stradali e, conseguentemente, fosse da qualificarsi come rifiuto speciale recuperabile e non riutilizzabile all'interno di un processo produttivo.
Un interveniente ha al contrario illustrato le fasi del ciclo di riutilizzazione dell'asfalto, sostenendo che lo stesso non viene né ritrasformato nè riciclato, e può dunque essere recuperato in loco senza operazioni di stoccaggio e deposito. Ha altresì sostenuto che, alla luce dell'art. 183 del Codice dell'ambiente, caratteristica del rifiuto è che di esso il detentore intenda disfarsi, mentre del fresato d'asfalto il detentore non si disfa, anzi le sue caratteristiche ne consentono un immediato ed integrale reimpiego. Ha quindi concluso che, in conformità a quanto deciso dal Tar, il materiale in questione rivestisse tutte le caratteristiche dei sottoprodotti.
I giudici di Palazzo Spada hanno accolto questa seconda interpretazione e confermato la tesi sostenuta dal Tar.
I giudici di primo grado, pur avendo riconosciuto che il fresato d'asfalto viene disciplinato come rifiuto dal D.M. 5.2.1998 e dal Catalogo Europeo dei Rifiuti (CER) allegato alla direttiva 75/442/CEE, hanno però evidenziato che lo stesso può nondimeno essere trattato alla stregua di un sottoprodotto qualora venga usato senza ulteriori trattamenti in un impianto che ne preveda l'utilizzo nello stesso ciclo di produzione senza operazioni di stoccaggio a tempo indefinito.
Tale ratio è sostenuta dalla seguente motivazione giuridica.
Dato che la definizione di sottoprodotto indicata dal Codice è successiva rispetto a quella contenuta nella disciplina comunitaria, la pregressa giurisprudenza amministrativa ha ritenuto la classificazione di rifiuto indicata dalla direttiva sopra indicata come non vincolante per quelle sostanze che possono essere ricomprese all'interno della definizione di sottoprodotto ex art. 184 bis del Codice giungendo, per alcune di esse già classificate come rifiuto, a riqualificarle come sottoprodotto (ad es. la pollina, vedi Cons. St. Sez. IV, 28.2.2013, n. 1230).
Sono state inoltre appurate le seguenti fasi inerenti il ciclo di vita della fresatura d'asfalto: il reinserimento del bitume d'asfalto all'interno del processo produttivo dell'impianto; il futuro riutilizzo integrale; l'assenza di un processo di trasformazione; il riutilizzo in tempi ravvicinati (quotidianamente) rispetto al prelievo, senza particolari operazioni di stoccaggio; l'assenza di qualunque esigenza di smaltimento, essendo il prodotto in questione sempre riutilizzabile e riutilizzato.
Pertanto, una volta constatato che nel caso di specie la lavorazione della fresatura d'asfalto è avvenuta nel rispetto di questa procedura, il Tar ha concluso che il bitume d'asfalto ottenuto in seguito ai lavori di fresatura del manto stradale fosse da considerarsi sottoprodotto e non rifiuto.
Il Consiglio di Stato ha confermato la validità di questa interpretazione, ritenendola in linea non solo con la normativa interna, ma anche con la giurisprudenza nazionale ("essenziale ai fini della qualificazione di una sostanza come sottoprodotto è la sussistenza contestuale di tutte le condizioni richieste e l'assenza di trasformazione preliminare ai fini del riutilizzo, oltre alla circostanza che il materiale sia destinato con certezza e non come mera eventualità ad un ulteriore utilizzo. Cass. Pen., Sez. III, 14.6.2012, n. 28609) e comunitaria (è ammesso, alla luce degli obiettivi della direttiva 75/442, qualificare un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo non come rifiuto, bensì come sottoprodotto di cui il detentore non desidera disfarsi ai sensi dell'art. 1, lett. a) della Direttiva, a condizione che il suo riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare e nel corso del processo di produzione" (C. G.C.E., sent. 11 settembre 2003, causa C114/01, Avesta Potarit Chrome) ("quando oltre che riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la sostanza non può essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di disfarsi, bensì un autentico prodotto" (CGCE sent. 18 aprile 2002, causa C9/00 Palin Granit).
Di conseguenza, il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso e disposto la compensazione delle spese.