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La vicenda passata al vaglio della Corte di Cassazione racconta la storia giudiziaria di due genitori che davanti al Tribunale di Milano chiedevano la condanna, al risarcimento dei danni, del loro medico di famiglia, in quanto lo stesso aveva contribuito a cagionare la morte del loro figlio colpito da broncopolmonite asintomatica. I genitori ritenevano che il medico avesse commesso un errore diagnostico e terapeutico prescrivendo al piccolo solo dei farmaci antiemetici (cioè contro il vomito) senza prescrivere un esame più specifico come l'esame obiettivo del torace e dell'apparto respiratorio. Quindi, il bambino che aveva una carenza immunitaria anticorpale, aveva accusato dapprima astenia e cefalea accompagnata da alcune linee di febbre, poi alcuni episodi di vomito.Dopo questi episodi il piccolo moriva a causa di una una polmonite franca lobare; viene detta così perché di solito il processo infiammatorio invade contemporaneamente un intero lobo polmonare.
Il giudice di primo grado, nonostante avesse preso visione del decreto di archiviazione emesso dal GIP nei confronti del medico, il cui operato era stato giudicato incensurabile,aveva comunque disposto una CTU.
Il consulente d'ufficio nella propria relazione confermava l'assenza di qualsiasi responsabilità professionale del sanitario anche perché non vi era alcun nesso causale tra la condotta del sanitario e l'evento morte.
Anche in sede di appello la domanda risarcitoria non trovava accoglimento e la Suprema Corte, chiamata ad esprimersi sulla questione, riteneva di non poter accogliere il ricorso dei genitori i quali pur denunciando, formalmente, un difetto di motivazione della sentenza di secondo grado in qualche modo chiedevano agli Ermellini di rivalutare le risultanze di fatto che si erano ormai cristallizzate nei precedenti gradi del procedimento.
Quindi, con le richieste presenti nel ricorso i genitori avevano cercato di trasformare il giudizio di legittimità in un una specie di terzo grado di merito in cui ridiscutere i fatti storici e le vicende processuali.
Per questa ragione la Corte rigettava il ricorso sostenendo che la conclusione a cui era giunta la Corte d'Appello era esatta cioè non vi era alcun nesso causale tra la condotta del medico e l'evento morte. Le prove di ciò erano state raggiunte attraverso gli accertamenti svolti sia dal consulente tecnico del giudice penale, sia dalla consulenza disposta autonomamente in sede di giudizio risarcitorio.