Ci si interroga spesso sulla circostanza se l'inerzia dell'Amministrazione serbata su una richiesta di accesso agli atti possa o meno profilare il reato rubricato all'art. 328 c.p. quale "omissione di atti d'ufficio".
La legge che prevede e regola l'accesso agli atti del procedimento è la L. n. 241/90, testo più volte novellato, da ultimo dal DL 21/6/2013 n. 69, che statuisce espressamente all' art. 22 c. II che "L'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza", inoltre lo stesso provvedimento legislativo ha "expressis verbis" statuito con forza, l'obbligo per le P.A. di concludere i procedimenti amministrativi, quindi anche la richiesta di accesso agli atti, entro il termine generale di 30 gg (art. 2 c. II L. 241/90) e comunque mai oltre i 180 gg (art. 2 c. IV L. 241/90).
L'obbligo è rafforzato dalla previsione di una sanzione di tipo risarcitorio per la produzione di danni connessi alla mancata conclusione del procedimento nei termini di legge (art. 2 bis L. 241/90), quindi la violazione di tale disposizione normativa determinerà una serie di effetti: la condanna a provvedere, l'obbligo di risarcire l'eventuale danno arrecato e qualora ne ricorrano gli estremi, la violazione dei doveri d'ufficio ex art. 328 del c.p. che appunto prevede il reato di omissione di atti d'ufficio per il pubblico ufficiale che entro 30 giorni dalla richiesta, o in un tempo più lungo come sopra citato, non compie l'atto e non risponde spiegando le ragioni del ritardo.
A fronte di una richiesta di accesso da parte di un privato, il pubblico ufficiale ha il dovere di rispondere entro 30 giorni o rilasciando l'atto richiesto ovvero negandolo motivatamente; nella ipotesi di mancata risposta espressa nel termine previsto, ai sensi dell'art. 25 c. IV L. 241/90, la richiesta "si intende respinta", innescando in tal senso il meccanismo del silenzio rigetto.
Ci si chiede se in siffatta ipotesi, si possa anche ipotizzare, a carico del funzionario inadempiente, il reato di cui all'art. 328 c.p., esso è ritenuto inapplicabile per una parte di giurisprudenza minoritaria proprio in virtù del concretizzarsi del silenzio rigetto, che ha natura provvedimentale seppur di segno negativo, ragion per cui si applicherebbe alla fattispecie la causa di giustificazione ex art. 51 c.p. (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere), costituendo un diritto per l'amministrazione il potere di emanare un provvedimento tacito di rigetto.
Da parte della giurisprudenza prevalente in disaccordo con questo orientamento, è stato correttamente replicato che la scriminante di cui all'art.51 c.p. non appare applicabile, poichè il meccanismo del "silenzio rigetto" costituisce solo una c.d. "fictio iuris" e non è un autonomo diritto attribuibile dalla P.A., la quale ha sempre il dovere di concludere il procedimento mediante provvedimento espresso (ex art. 2, c. II l.241/90).
La stessa giurisprudenza non ha ritenuto di condividere nemmeno l'impostazione dottrinale secondo cui la consumazione del reato richiederebbe che, a seguito della formazione del "silenzio rigetto", l'interessato invii un altro atto di diffida ad adempiere alla P.A. inadempiente.
La tesi risulterebbe accoglibile se il termine per la conclusione del procedimento fosse superiore a quello del disposto penale, ma non appare plausibile proprio perchè i due termini coincidono (30 gg.), un atto sollecitatorio volto a stigmatizzare un silenzio già intrinsecamente illecito, risulterebbe non solo inutile, ma aggraverebbe il procedimento di accesso, in aperto contrasto con la stessa legge sul procedimento amministrativo (art. 1 c. II L. 241/90).
Riassumendo si può affermare che la legge n. 241 fissa in modo circostanziato il precetto al quale la p.a. e i suoi dipendenti devono attenersi in materia di accesso agli atti, mentre l'art. 328 c.p. co. 2, prevede le punibilità per la violazione di tale precetto.
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