È il c.d. "principio nominalistico" di cui all'art. 1277 c.c. che fa assurgere il denaro a valore di scambio e misuratore dell'importanza economica degli altri beni, sancendo che le obbligazioni pecuniarie si estinguono "con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale".
Ne consegue che ogni pagamento effettuato con moneta legale non possa essere legittimamente rifiutato (c.d. "principio liberatorio dell'obbligazione") e che la moneta vada computata secondo il suo valore nominale (corrispondente alla quantità inizialmente fissata) e non secondo il valore reale (ovvero, il potere d'acquisto effettivo al momento del pagamento), non tenendo conto, pertanto, dell'eventuale deprezzamento subito fino alla scadenza dell'obbligazione stessa.
Se da un lato, dunque, la volontà del legislatore codicistico è tesa a rafforzare la certezza degli scambi commerciali e delle transazioni economiche, con la garanzia liberatoria dei pagamenti sulla base del denaro originariamente previsto al tempo dell'insorgere del diritto; dall'altro, tuttavia, il rischio del deprezzamento della valuta grava sul creditore (fermo restando che potrebbe anche avverarsi la situazione inversa per cui nel caso di rivalutazione monetaria il creditore ne trarrebbe vantaggio a detrimento del debitore), il quale può tutelarsi attraverso il c.d. "maggior danno", ovvero, come avviene nella prassi, attraverso l'ancoraggio del credito a determinati parametri (costo della vita; quotazione dell'oro; ecc.), al variare dei quali si avrà una variazione del capitale dovuto.
Appare ben chiara, quindi, l'esigenza di contenere i danni di un eventuale fenomeno inflattivo galoppante che andrebbe a svalutare fortemente il valore reale della moneta di scambio.
Pertanto, le teorie economiche che ritengono di poter stampare nuova moneta per compensare la perdita di valore, sembrerebbero trovare in quanto detto sinora un limite, poiché aumentando ulteriormente la massa monetaria circolante si stimolerebbe ancor di più l'inflazione e la relativa svalutazione della stessa.
Anzi, secondo alcune teorie economiche (come la c.d. "scuola austriaca"), l'inflazione consisterebbe proprio nell'aumento della quantità di denaro in circolazione (del quale l'aumento generalizzato e persistente dei prezzi rappresenterebbe una conseguenza inevitabile), causato da una politica monetaria espansionistica, diretta da una banca centrale che attraverso il potere di emettere moneta può inflazionare a piacimento il valore della stessa. Gli economisti della scuola austriaca spiegano così l'aumento dei prezzi nell'Eurozona e criticano l'attuale sistema monetario, proponendo in antitesi un ritorno a un sistema di moneta merce, basato sulla "parità aurea" ovvero sulla possibilità di ogni banca di emettere la propria valuta in concorrenza con gli altri istituti finanziari.
Invece, le teorie fautrici degli effetti positivi derivanti dall'emissione di nuova moneta, come la Modern Money Theory, sostengono che ogni Stato essendo dotato di sovranità monetaria ha potere illimitato di stampare denaro potendo finanziare così ogni disavanzo e sanare il debito pubblico.
Il ragionamento è il seguente: poiché ogni Paese ha capacità di pagamento infinita non può andare in default, per cui la nuova moneta messa in circolazione andrebbe a sostenere gli investimenti produttivi e, per questa via, ad aumentare il reddito (di coloro che percepiscono la moneta come corrispettivo per i servizi resi) e, dunque, la produzione di beni e servizi, tenendo così a bada il rischio inflazione ed innescando un processo virtuoso che, nel lungo periodo, porterebbe al raggiungimento della massima capacità produttiva nonché alla piena occupazione.
Analogamente, i "neokeynesiani" ritengono che quando le economie si trovano in una "trappola della liquidità", come nella situazione attuale, uno shock negativo dal lato dell'offerta, come potrebbe essere un aumento dell'immissione della moneta in circolazione (sotto forma anche di aumento dei salari) potrebbe avere un effetto positivo, comportando un aumento proporzionale della domanda. Ciò farebbe aumentare la produzione e l'occupazione creando un processo virtuoso e non inflazione.
D'altronde, avvertono i neokeynesiani, l'aumento del potere d'acquisto, determinato dalla quantità maggiore di moneta, potrebbe non essere destinato ai consumi ma al risparmio e ciò porterebbe ad una lievitazione dei prezzi e conseguentemente all'inflazione. Ma in tal caso, si ritiene intervengano altre dinamiche, quali, ad esempio, l'aspettativa dell'aumento dei prezzi che spingerebbe all'accelerazione della domanda e quindi ai consumi e agli investimenti, tenendo a bada il fenomeno inflazione.
Purtroppo, nessuna delle teorie esposte può garantire certezze sulle dinamiche scatenate dai movimenti della moneta, ma solo previsioni.
Ciò che è certo è che le attuali politiche di austerity che mirano al contenimento della spesa pubblica hanno fallito, mentre un'iniezione di liquidità nel sistema, pur andando incontro all'alto rischio di scatenare un meccanismo inflattivo, potrebbe essere benefica e dare slancio all'economia senza generare inflazione galoppante .
Sicuramente, però, per raggiungere i fini sperati, occorrerebbero adeguate politiche di supporto, investimenti oculati, diminuzione della pressione fiscale e ridistribuzione più equa della ricchezza.
Politiche, in definitiva, che mirino a stimolare la ripresa della produttività e la crescita uscendo dall'attuale periodo di stagnazione della domanda e dalla crisi.
Luigi Vitale - luigivitale02.wordpress.com