Quella che segue è la relazione principale, tenuta dalla Prof.ssa Patrizia Ziviz dell'Università di Trieste, insigne pubblicista e pioniera della figura del danno esistenziale, che LIA Law In Action pubblica in esclusiva.
Conferme e novità in materia di danno non patrimoniale
di Patrizia Ziviz
1. Il sistema di risarcimento del danno non patrimoniale
Nell'oramai lontano novembre del 2008 le Sezioni Unite emanarono quelle che dovevano rappresentare le "tavole della legge" sul risarcimento del danno non patrimoniale: poste a governare e dirimere le numerose questioni riguardanti questa tanto discussa materia. E' noto a tutti come quell'intervento - lungi dall'incarnare un momento di chiarezza e pacificazione tra gli opposti orientamenti che si dividevano il campo - abbia posto sul terreno nuovi motivi di discussione e di scontro.
I dubbi che si sono diffusi, a seguito di tali indicazioni, presso gli interpreti trovano oggi, a distanza di più di cinque anni, una corposa risposta nella sentenza depositata nello scorso gennaio dalla Terza Sezione della Cassazione (Cass. 23 gennaio 2014, n. 1361, rel. Scarano). In questa pronuncia, infatti, viene rivisitata la gran parte dei nodi oggetto di controversia, con l'intento di sgomberare il campo dalle incertezze.
(a) che cos'è il danno non patrimoniale? Si tratta, cioè, di identificare con precisione il fenomeno che l'ordinamento intende disciplinare;
(b) quando va risarcito il danno non patrimoniale? Bisogna chiedersi come va interpretata la regola dell'art. 2059 c.c., alla luce di un'interpretazione costituzionalmente compatibile della norma;
(c) come si procede sul piano operativo al relativo risarcimento? Vanno identificate le regole operative, in particolare per quanto concerne la prova e la liquidazione di tale categoria di pregiudizio.
Su tali grandi questioni, le precisazioni formulate nella recente pronuncia Cass. 1361/2014 riguardano fondamentalmente il primo e il terzo interrogativo.
2. Le voci descrittive del danno non patrimoniale
Per quanto concerne il primo quesito, le affermazioni della Cassazione possono essere sintetizzate in 5 punti:
(1) La categoria del danno non patrimoniale si articola in una pluralità di voci aventi funzione descrittiva, quali il danno morale, il danno biologico e il danno esistenziale. Ricorre una diversità ontologica tra le varie voci del pregiudizio non patrimoniale, che tutte dovranno essere prese in considerazione ai fini della determinazione del risarcimento, nel rispetto del principio dell'integralità del risarcimento.
La Cassazione accoglie l'idea che appare necessario andare oltre la generica qualificazione fornita dal dato della "non patrimonialità", per puntare a una definizione che espliciti la tipologia delle compromissioni da prendere in considerazione. La necessità di procedere a una distinzione delle varie componenti dell'area non patrimoniale aveva già trovato, del resto, esplicita conferma a livello normativo. Il legislatore ha, in effetti, attribuito rilievo alla categoria del danno biologico, fornendo la definizione di una figura compresa nell'area non patrimoniale, ma che non esaurisce la stessa; l'attribuzione di dignità tassonomica a una specifica componente implica - allora - la possibilità di procedere all'identificazione delle altre voci non patrimoniali, che dalla stessa vengono a differenziarsi.
All'enucleazione delle varie componenti dell'area non patrimoniale sono pervenute, d'altro canto, le stesse Sezioni Unite del novembre 2008, precisando - tuttavia - che le distinte voci del pregiudizio assumerebbero valenza esclusivamente descrittiva, sicché ad esse non potrebbe essere attribuita la qualità di autonome categorie. Nel negare l'autonomia delle singole voci, sembra che i giudici di legittimità intendano impedire che si possa, come accadeva in passato, ricondurre ciascuna di esse a un differente ambito disciplinare. Ma, se ciò che si vuol garantire è l'applicazione di una regola univoca nei confronti di tutte le voci non patrimoniali, non è certo necessario negare la rilevanza e l'autonomia delle singole componenti; la medesima disciplina può ben essere attivata a fronte di poste di pregiudizio riconducibili a differenti ambiti fenomenologici, e quindi a distinte categorie. Una tassonomia che distingua le diverse componenti non patrimoniali non impedisce - in definitiva - di ricondurre le stesse ad una super-categoria più generale, rappresentata dal danno non patrimoniale, assoggettato alla medesima regola risarcitoria. In buona sostanza, a risultare unitaria dev'essere semmai quest'ultima, e non le voci di danno alle quali la stessa viene applicata.
La Cass.1361/2014 sottolinea la necessità di descrivere la multiforme realtà del danno non patrimoniale attraverso l'individuazione delle varie voci che ad essa fanno capo: identificando le stesse con il danno morale, il danno biologico, il danno esistenziale e - grande innovazione - il danno da perdita della vita.
(2) Al danno morale fanno capo i pregiudizi di tipo non patrimoniale costituiti dalla sofferenza soggettiva, la quale non necessariamente assume carattere transeunte. Oltre a tali profili, va presa autonomamente in considerazione la compromissione della sfera di dignità morale della persona.
Si segnala l'accoglimento di una nozione di danno morale il cui contenuto risulta, in accordo con alcuni dati normativi di settore, esteso a comprendere la compromissione della dignità della persona; con la precisazione - da parte della Cassazione - che tale profilo del danno morale non risulterebbe compreso nelle tabelle milanesi. Si tratta, perciò, di un'indicazione che potrebbe assumere un notevole impatto sul piano concreto, rendendosi in ogni caso necessario chiarire in che cosa consista (nei termini di danno-conseguenza) il pregiudizio all'integrità morale della vittima.
La Cassazione, nel formulare tale allargamento della nozione di danno morale, non identifica tuttavia con chiarezza le compromissioni da prendere in considerazione sotto questa veste. Il rischio, a ben vedere, è quello di scivolare verso una velata riproposizione della teoria del danno-evento. Onde evitare un simile pericolo, bisogna allora sottolineare che tutelare la dignità significa assicurare il rispetto di ogni persona, in quanto essere umano. Nella prospettiva aquiliana, andrà - allora - ravvisata una lesione della dignità laddove l'illecito avvenga con modalità tali da disconoscere, in capo alla vittima, il valore della stessa quale persona umana. Ciò significa che il concetto di danno morale va quindi esteso a comprendere il pregiudizio rappresentato dallo spregio del valore di persona subito dalla vittima dell'illecito, in quanto corrispondente alla lesione della dignità di quest'ultima.
(3) Il danno biologico rappresenta un aspetto ulteriore e diverso del pregiudizio, distinto dal danno morale, e la relativa nozione - avente valenza generale - va ricavata dal Codice delle assicurazioni private, ove si precisa che alla stessa vanno ricondotte le ripercussioni sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato.
Nell'alveo di tale concetto vanno ricondotte le varie figure rappresentate dal danno estetico, dal danno alla vita di relazione, dal danno da impotenza sessuale, da malattie nervose, insonnia e alterazioni mentali.
La Cassazione 1361/2014 accoglie quella nozione di danno biologico che appare formulata a livello normativo in ambito settoriale: concetto che esclude la considerazione delle ripercussioni di ordine morale provocate dalla lesione alla salute.
A tale riguardo, sono note le discussioni innescate da quella controversa indicazione delle Sezioni Unite del 2008 secondo cui, a fronte di una lesione alla salute, si tratterebbe di risarcire esclusivamente quest'ultima voce: la quale sarebbe perciò destinata ad assorbire anche le compromissioni di ordine morale.
L'area di pregiudizio della quale era apparsa discussa la collocazione riguarda - evidentemente - le sofferenze di carattere emotivo. Nessun dubbio sussiste infatti, presso gli interpreti, quanto alla necessità di attrarre nell'area del danno biologico i dolori di carattere fisico correlati alla lesione della salute, ponendosi gli stessi sullo stesso piano degli altri sintomi provocati dalla patologia.
Le indicazioni delle Sezioni Unite del 2008 - secondo cui le sofferenze emotive indotte dalla lesione dell'integrità psico-fisica costituirebbero elemento di personalizzazione del danno biologico - sono state formulate con il dichiarato intento di evitare duplicazioni risarcitorie. A ben vedere, però, un simile rischio non si è giammai prospettato in passato sul piano concreto, dal momento che la giurisprudenza, nel liquidare il danno biologico, non ha affatto tenuto conto delle sofferenze emotive. Del tutto ingiustificato, allora, è parlare di duplicazione del risarcimento in caso di distinta attribuzione del danno biologico e di quello morale, dal momento che la pratica oggetto di critica da parte della Sezioni Unite non riguarda la paventata (ma inesistente) attribuzione dello stesso pregiudizio con due nomi diversi. Ad essere criticato è, bensì, l'automatismo nell'attribuzione del ristoro del danno morale quale quota frazionaria di quello biologico, in assenza di qualsiasi indagine circa l'effettiva ricorrenza dello stesso. Se dunque, l'obiettivo è quello di impedire liquidazioni automatiche, la misura adatta non consiste certo in una malintesa personalizzazione del danno biologico. Personalizzare significa aumentare o diminuire la liquidazione relativa a una determinata componente del pregiudizio in ragione delle caratteristiche individuali del soggetto leso. Non si può parlare di personalizzazione laddove al pregiudizio venga sommata una diversa specie di conseguenze pregiudizievoli, fagocitando nel danno biologico il patema d'animo.
Nel dibattito seguito alle affermazioni delle Sezioni Unite, è noto come la prospettiva accolta dal Tribunale di Milano sia stata quella volta a mutare il termine di riferimento delle tabelle: non più ristrette alla considerazione del danno biologico, ma relativo al danno non patrimoniale derivante dalla lesione dell'integrità psico-fisica. Ci si riferisce, quindi, alla valutazione di un pregiudizio in cui confluiscono sia la componente biologico che quella morale, rappresentata dal patema d'animo indotto dall'illecito, che viene incorporato nel punto di invalidità secondo una percentuale standard. Le recenti indicazioni di Cass. 1361/2014 sottolineano che nelle tabelle non appare mai compreso, invece, il pregiudizio corrispondente alla compromissione della dignità della vittima.
(4) Il danno esistenziale corrisponde al "pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diversa quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno" ed è risarcibile: (a) in caso di reato, ove discenda dalla lesione di un interesse giuridicamente protetto; (b) o, altrimenti, ove consegua dalla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto all'integrità psico-fisica. Tale affermazione risponde a quanto statuito dalle Sezioni Unite del 2008, dovendosi escludere che le stesse abbiano negato la configurabilità e la rilevanza di tale posta di pregiudizio.
Viene confermata la presenza del danno esistenziale nel sistema, sottolineando quel che da parte di molti si era detto già nel 2008: le Sezioni Unite del novembre 2008 sono ben lungi dal sancire la scomparsa del danno esistenziale: si riconosce come i pregiudizi esistenziali possano senz'altro essere risarciti sia nei casi esplicitamente previsti dalla legge, che nelle ipotesi di lesioni dei diritti inviolabili, sicché tale figura continua a trovare spazio nel sistema con valenza descrittiva.
L'atteggiamento ostile espresso dalle Sezioni Unite nei confronti di tale categoria si era appuntato fondamentalemente sulla possibilità di risarcire simili pregiudizi fuori dai casi tipici cui rinvia l'art. 2059 c.c. Le Sezioni Unite hanno ripreso, a tale proposito, quelle affermazioni dei giudici di legittimità secondo cui si tratterebbe di una categoria generica, tale da "portare anche il danno non patrimoniale nell'atipicità, sia pure attraverso l'individuazione dell'apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale". L'accusa di genericità mossa contro il danno esistenziale non mira - in realtà - a porre in evidenza una vaghezza di carattere definitorio; né ad essere criticata appare l'eccessiva ampiezza quanto ai riflessi pregiudizievoli ricondotti a quell'ambito. Gli appunti vengono rivolti al fatto che il pregiudizio in questione non mostra (come invece accade per il danno biologico) un legame specifico con la lesione di un particolare interesse; lo ricorrenza dello stesso appare, in effetti, ricollegata a una serie potenzialmente indeterminata di illeciti. Il danno esistenziale è stato osteggiato in quanto visto come grimaldello utile a consentire l'accesso alla tutela risarcitoria di qualunque disagio patito dall'individuo.
Un timore del genere risulta, in verità, del tutto infondato. Il danno esistenziale ricopre un ruolo ben preciso: quello di etichettare una serie di conseguenze pregiudizievoli subite dalla vittima. Tale figura opera, quindi, esattamente allo stesso modo del danno morale, che anch'esso individua una serie di ripercussioni dannose non ricollegabili a figure peculiari di torto. Ai fini del risarcimento è dunque sempre indispensabile procedere all'accertamento dell'ingiustizia del danno. Non solo: si tratterà, altresì, di accertare la ricorrenza degli estremi di risarcibilità previsti dal sistema selettivo congegnato dall'art. 2059 c.c.
(5) Nel caso in cui l'illecito determini la morte della vittima, va risarcito il danno da perdita della vita, il cui ristoro prescinde dalla durata dell'intervallo tra lesione e decesso e dallo stato di consapevolezza o meno sussistente in capo alla vittima. Tale pregiudizio, da tenersi distinto dai pregiudizi patiti dal soggetto durante l'agonia, va risarcito in via di eccezione al principio della risarcibilità dei soli danni-conseguenza, in virtù della constatazione che la morte ha per conseguenza la perdita non già di qualcosa, bensì di tutto. Non verrebbe, d'altro canto, meno la funzione compensativa del risarcimento, considerato che "il credito alla vittima spettante per la perdita della propria vita a causa dell'altrui illecito accresce senz'altro il suo patrimonio ereditario". Il pregiudizio in questione, non essendo contemplato dalle tabelle di Milano, va rimesso alla valutazione equitativa del giudice.
E' questa la novità più rilevante: quella relativa all'aperto riconoscimento della risarcibilità del danno da perdita della vita. Con questa formula ci si riferisce al pregiudizio patito dalla vittima per essere stata privata della sua capacità di sopravvivenza. Si tratta, pertanto, di un pregiudizio distinto dai danni da agonia: vale a dire dal danno biologico terminale e dal danno morale catastrofale (nonché, ovviamente, dai pregiudizi patiti iure proprio dai congiunti).
La Cassazione, dopo aver vagliato le varie teorie (perdita di chances, danno collettivo) formulate per attribuire la veste di danno-conseguenza a tale pregiudizio, ritiene necessario affermare che in questo caso (e soltanto per esso) è necessario fare eccezione al principio che nega la risarcibilità del danno-evento.
Inutile sottolineare la portata storica di una svolta del genere, anche in considerazione dell'impatto che la stessa appare destinata a produrre sul piano pratico. E' scontato, dunque, che attorno a tale profilo verrà a concentrarsi l'attenzione e la riflessione degli interpreti, anche alla luce del fatto che il contrasto di giurisprudenza sul punto è stato prontamente rimesso al vaglio delle Sezioni Unite (Cass. 5056/2014).
3. La liquidazione del danno non patrimoniale
Per quanto concerne il terzo quesito, relativo alle regole operative, Cass. 1361/2014 si sofferma sul profilo della liquidazione, pervenendo alle conclusioni sintetizzate nei seguenti punti:
(6) La non patrimonialità del danno si traduce nell'impossibilità di procedere a un'esatta commisurazione dello stesso, per cui appare d'obbligo la valutazione equitativa, la quale mira a determinare una compensazione economica socialmente adeguata del pregiudizio. A tal fine si tratta di rispondere ad una duplice esigenza: volta ad assicurare, da un lato, un'uniformità di base e, dall'altro lato, la considerazione delle circostanze del caso concreto, che rendono necessaria la personalizzazione della quantificazione.
Si tratta di passaggi per certi versi scontati, ma utili a sottolineare la funzione compensativa del pregiudizio non patrimoniale, destinata a riflettersi sui metodi di liquidazione concretamente applicati.
(7) La liquidazione dev'essere congrua, puntando a garantire il rispetto del principio dell'integrale risarcimento. Dalla relativa applicazione vengono fatti discendere i corollari: (a) dell'illegittimità dell'apposizione di limitazioni massime non superabili; (b) della necessità di prendere in considerazione tutti i vari aspetti (ovvero voci) in cui si compendia la categoria del danno non patrimoniale.
Viene confermato quel principio di riparazione integrale del danno già solennemente affermato dalle Sezioni Unite del novembre 2008. Tale indicazione riguarda, ovviamente, quelle conseguenze dannose che, derivando da un illecito, rientrino altresì nell'ambito del rinvio di cui all'art. 2059 c.c.; il principio di integrale risarcimento si applica, quindi, all'interno di un sistema selettivo, che si fonda sull'esclusione dal perimetro della tutela aquiliana delle conseguenze non patrimoniali non comprese tra i casi determinati dalla legge.
Va sottolineato che al concetto di integralità del risarcimento deve allora essere attribuito, in questo campo, un significato diverso da quello che esso viene a rivestire sul versante patrimoniale. L'evocazione di tale formula va posta a fondamento della necessità di tener conto, ai fini risarcitori, di tutte compromissioni non economiche scaturite dalla lesione, evitando nel contempo di dare per scontati pregiudizi che non si sono concretamente verificati. Si tratta, in buona sostanza, di prendere in considerazione l'intero ventaglio delle ripercussioni non patrimoniali provocate dal torto. Un principio del genere sarebbe, quindi, disatteso laddove il legislatore - attraverso la fissazione di tetti o di percentuali massime di incremento rispetto a valori prestabiliti - imponga un contenimento quantitativo del risarcimento tale da non permettere di fornire riscontro monetario all'intero ventaglio delle ripercussioni non economiche del torto.
Una volta prese in considerazione, in maniera completa, le ripercussioni dannose di un determinato illecito, si tratta di tradurre le stesse in termini pecuniari: operazione, questa, che sfugge ad un preciso calcolo matematico. Non può essere, quindi, prefigurata in partenza, come invece accade di norma per il danno patrimoniale, una somma esattamente corrispondente al pregiudizio subito dal danneggiato. Una volta constatato che il danneggiato, il quale abbia subito un definitivo impoverimento della propria sfera non patrimoniale, verrà compensato con un arricchimento in denaro, si tratta di garantire che la somma attribuita si presti a rispecchiare concretamente, sul piano monetario, il pregiudizio effettivamente risentito. La quantificazione dello stesso appare - di conseguenza - variabile, sarebbe più opportuno affermare che il risarcimento deve risultare (non già integrale, bensì) congruo. Ed è proprio a quest'ultimo concetto che si rifà la sentenza 1361/2014, sottolineando come la somma attribuita alla vittima dev'essere tale da rispecchiare il pregiudizio, secondo il metro che si ricava dalla coscienza sociale.
(8) Il principio di integralità del risarcimento si pone in correlazione con la necessità di evitare duplicazioni risarcitorie: le quali si manifestano se la stessa voce viene computata due o più volte sulla base di diverse denominazioni. Per stabilire se il risarcimento sia stato duplicato o erroneamente sottostimato rileva "non già il nome assegnato dal giudicante al pregiudizio lamentato dall'attore, ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice". A tal fine, non vi sarebbe differenza "tra la determinazione dell'ammontare (…) mediante la somma dei vari ‘addendi' e l'imputazione di somme parziali o percentuali del complessivo determinato ammontare a ciascuno di tali aspetti o voci".
Le Sezioni Unite hanno affermato - nelle sentenze del novembre 2008 - che il principio di integrale riparazione può trovare concreta applicazione esclusivamente a fronte di una valutazione di carattere unitario del danno non patrimoniale: tale principio sarebbe finalizzato ad evitare duplicazioni risarcitorie. In verità è proprio attraverso un'indicazione del genere che possono essere favorite degenerazioni duplicatorie, dal momento che, limitandosi a parlare di perdite non patrimoniali genericamente intese, manca ogni vaglio contenutistico quanto alle ripercussioni non economiche subite dal soggetto leso.
Dal momento che le compromissioni patite dalla vittima vanno allegate e provate, ciò significa che le stesse devono essere descritte dal danneggiato in termini fenomenici. Ove si faccia ricorso esclusivo alla liquidazione unitaria, il giudice si troverà privo di qualsiasi riferimento nella gestione del magma indistinto delle allegazioni prodotte dal danneggiato. Soltanto tramite la rigorosa distinzione, sul piano contenutistico, tra le varie componenti dell'area non patrimoniale può essere evitata la trappola della moltiplicazione dei danni.
La distinzione - in sede di liquidazione - delle varie componenti del pregiudizio appare, del resto, indispensabile al fine di verificare la congruità del risarcimento ed accertare che la determinazione dello stesso sia avvenuta tenendo conto di tutte le ripercussioni dannose. Ove il giudice stabilisca semplicemente una cifra onnicomprensiva, non appare infatti possibile conoscere il peso quantitativo attribuito ai differenti profili pregiudizievoli, onde poter valutare se la consistenza dello stesso appaia adeguata a rispecchiare le varie compromissioni patite dalla vittima. La sentenza 1361/2014 sottolinea la necessità di distinguere gli importi attribuiti a ciascuna componente del pregiudizio, ammettendo che il metodo attraverso il quale arrivare a tale risultato possa essere duplice.
(9) Una valida soluzione nella liquidazione del danno non patrimoniale è rappresentata dal sistema delle tabelle, che consente di dare attuazione al dettato dell'art. 1226 c.c. In particolare, va preso atto della vocazione nazionale assunta dalle Tabelle di Milano, nel campo dei danni derivanti da lesione alla salute di non lieve entità (segnalandosi, a tale riguardo, che i parametri tabellari in questione non tengono conto del profilo del danno morale relativo alla compromissione dell'integrità morale quale espressione della dignità umana). Nell'applicazione del sistema tabellare, la previsione di limiti massimi deve prevedere la possibilità di superamento degli stessi, in presenza di situazioni di fatto che si discostino significativamente da quelle ordinarie. Ove non sussista tale possibilità, il risarcimento potrebbe risultare non congruo, violandosi così il principio dell'integrale risarcimento.
La congruità (o integralità che dir si voglia) del risarcimento andrà valutata alla luce di un necessario confronto con il trattamento generalmente riconosciuto alle vittime di danni non patrimoniali dello stesso genere. La Cassazione ha a suo tempo evidenziato che l'applicazione della valutazione equitativa va intesa quale strumento volto ad assicurare l'omogeneità del trattamento risarcitorio delle vittime di un danno non patrimoniale. Attraverso la valutazione equitativa deve essere garantita un'omogeneità di trattamento con riguardo a compromissioni dello stesso tipo; di qui l'esigenza di addivenire all'individuazione di criteri attraverso i quali sia possibile determinare una base comune di calcolo, relativamente ai vari tipi di pregiudizio non patrimoniale, sulla quale il giudice possa fondare la sua valutazione. Resta il fatto che, quale che sia il sistema prescelto, appare comunque indispensabile conservare uno spazio per la personalizzazione del risarcimento da parte del giudice; solo così, infatti, è possibile prendere in considerazione tutte quelle peculiarità della vittima che siano tali da riflettersi - a fronte di un determinato evento lesivo - in uno specifico impatto dannoso.
Il sistema delle tabelle attualmente in uso presenta il problema di base rappresentato dalla settorialità, in quanto riguarda esclusivamente il settore del danno derivante da lesione alla salute e quello del danno dei congiunti. Rimane salva, comunque, la possibilità di usare quelle tabelle come termini di comparazione laddove si tratti di procedere alla valutazione del danno non patrimoniale derivane da altri tipi di torto.
Sul fronte delle tabelle si registrano due fronti aperti e collegati fra di loro: (a) la questione di costituzionalità relativa alle tabelle delle micropermanenti; (b) la definizione delle tabelle legislative in materia di macroinvalidità.
Pur essendo tali questioni relative ai pregiudizi che si verificano in settori specifici (sinistri stradali, responsabilità medica), resta il fatto che la soluzione delle stesse andrà a pesare in termini più generali sulla liquidazione del danno non patrimoniale nel suo complesso. Il suggerimento che proviene da Cass. 1361/2014 sembra essere ben chiaro, ed è quello volto a respingere l'applicazione di limiti legislativi insuperabili e l'adozione di valori di commisurazione del pregiudizio che non appaiano congrui alla stregua della coscienza sociale (come accadrebbe se venissero accolti importi molto inferiori rispetto a quelli attualmente adottati dalle tabelle di Milano).
Il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Macerata ringrazia sentitamente la Prof.ssa Patrizia Ziviz per l'apporto di alto valore scientifico tributato all'evento del 7 marzo 2014.