Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, sentenza 21 ottobre 2013 - 10 marzo 2014, n. 11493.
Con sentenza della Corte di Appello di Caltanissetta veniva dichiarata colpevole del reato di abusivo esercizio della professione legale, una giovane praticante avvocato non ancora abilitata all'esercizio della professione, per aver patrocinato una causa civile del valore di Euro 50.000, eccedente i limiti del patrocinio legale consentitole.
Ebbene, così condannata alla pena di mese uno di reclusione, poi, sostituita dalla corrispondente pena pecuniaria di Euro 1.140,00 di multa, la stessa, tramite suo difensore di fiducia, proponeva ricorso dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione. La condotta attuata dall'imputata - asseriva la difesa - «non integra la fattispecie criminosa contestatale, che presuppone un'attività continuativa e organizzata della professione! Se è vero che ella non aveva ancora conseguito il titolo abilitativo di avvocato e non era quindi iscritta nell'apposito albo professionale, deve tuttavia considerarsi l'unicità della sua condotta. Ella, in vero, ha svolto patrocinio cui non era autorizzata come praticante avvocato in relazione ad "una sola pratica", nella quale ha agito nell'interesse di una persona della sua famiglia (la madre) e, quindi, senza trarre da detto patrocinio "alcun vantaggio o beneficio di carattere economico"».
La pronuncia della Cassazione.
A dispetto di quanto sostenuto nel ricorso anzidetto, «il reato punito dall'art. 348 c.p. non richiede alcuna attività continuativa e/o organizzata della professione esercitata abusivamente dal soggetto agente. Quando l'esercizio della professione vietato all'agente investa atti tipici della professione, quali quelli posti in essere dalla [imputata] come patrocinatore legale, il reato ha natura istantanea, perfezionandosi anche con il compimento di un solo atto abusivo che realizza definitivamente il verificarsi dell'evento lesivo. Evento che è unico, come unitaria è la condotta che lo realizza anche se sviluppata (è il caso della ricorrente) con più atti professionali abusivi. Donde la perfetta irrilevanza della "unicità" della "pratica giudiziaria" indebitamente trattata dalla prevenuta segnalata in ricorso (cfr. Sez. 6, 2.7.2012 n. 30068)».
(…) «È ovvio, per altro, che l'istantaneità e unisussistenza del reato non implica che tutti gli atti di abusivo esercizio della professione successivi al primo compiuto dall'agente divengano irrilevanti (quasi sorta di post factum non punibile). L'istantaneità del reato non esclude certamente la coesistenza di una pluralità di atti professionali abusivi e "istantanei" che si susseguano nel tempo e divengano eventualmente unificabili sotto il vincolo della continuazione ex art. 81 co. 2 c.p.».
Allo stesso modo - aggiungono gli ermellini - errato è il rilievo della mancata percezione dalla abusiva attività legale svolta di alcun vantaggio o beneficio economico, avendo costei patrocinato una causa promossa dalla madre.
«La rilevanza economica o i risvolti patrimoniali dell'abusiva attività professionale esercitata dall'imputato sono elementi affatto estranei alla struttura della fattispecie criminosa. Il reato di cui all'art. 348 c.p. è un reato contro la pubblica amministrazione, il cui evento è costituito dalla elusione di una previa "speciale abilitazione", rilasciata una tantum da appositi organi pubblici o da enti pubblici professionali, per il durevole esercizio di attività professionali riservate a soggetti muniti di specifica qualificazione. L'eventuale scopo di lucro che possa aver spinto l'agente alla condotta abusiva non connota la lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice, cioè il bene immateriale della P.A. rappresentato dall'esigenza di garanzia, nell'interesse della collettività, di un controllo generale e preventivo dei requisiti per l'esercizio di specifiche professioni di più o meno elevato spessore tecnico. [Orbene] avuto riguardo alla indisponibilità dell'interesse protetto dall'art. 348 c.p., la mancanza nell'azione dell'imputato di finalità di profitto o guadagno patrimoniale ovvero i moventi di natura meramente privata e perfino il previo assenso del destinatario dell'attività professionale al suo illegale (id est abusivo) svolgimento non possono produrre alcun effetto esimente sulla inequivoca apprezzabilità penale della condotta tecnico - professionale esercitata dall'imputato con la sicura contezza di essere privo del corrispondente titolo abilitativo (Sez. 6,29.11.1983 n. 2286; Sez. 2,22.8.2000 n. 10816)».
Il ricorso è infondato e deve essere, pertanto, rigettato.
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