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Conformismo, o anche 'effetto gregge', nessuno di noi ne è immune, ma esattamente, fino a che punto questo fenomeno è in grado di manipolare le nostre menti? E' possibile che siamo addirittura disposti a negare l'evidenza pur di essere conformi al gruppo?
In un classico esperimento di psicologia (Solomon Asch 1950), un'alta percentuale di soggetti coinvolti aveva negato i propri sensi, almeno una volta, cedendo a implicite pressioni psicologiche da parte del gruppo.
In un precedente studio ('esperimento di Robbers Cave') veniva messo in luce che quando le persone si trovano a formulare un giudizio su un test ambiguo, queste tendono ad utilizzare i giudizi di altre persone come punto di riferimento. Ma quando ci troviamo di fronte a informazioni inequivocabili, in linea di massima le risposte delle altre persone non dovrebbero avere alcun effetto su di noi. Succede proprio così?
In uno studio del 1951, Solomon Asch portò uno studente universitario alla volta in una stanza, con altre otto persone presentate come partecipanti allo studio, ma in realtà complici dello psicologo. Successivamente, il ricercatore presentò loro delle schede raffiguranti tre linee di differente lunghezza; su un'altra scheda era invece disegnata una linea, della stessa lunghezza di una delle tre linee. Venne, quindi, chiesto ai complici quali fossero le linee della stessa lunghezza delle due schede e questi iniziarono a fornire risposte concordi, ma chiaramente errate. I veri soggetti su cui s'incentrava l'esperimento, iniziarono in molti casi a rispondere anch'essi in modo sbagliato, conformemente alla maggioranza che aveva risposto prima di loro. Pur essendo a conoscenza della risposta giusta, in quanto inequivocabile, il soggetto decideva volontariamente di omologarsi alla maggioranza. Solo una piccola percentuale si distaccava dal gruppo, dichiarando ciò che vedeva realmente, anziché ciò che sentiva di "dover" dire.
I risultati furono sorprendenti anche per lo stesso Asch: sommando il totale delle prove, emerse che il tasso medio di conformità si attestava al 33%.
Intervistati successivamente sul perché avessero fornito risposte palesemente scorrette, i soggetti risposero: per timore della disapprovazione, per paura di essere nel torto o di essere isolati dal gruppo, per la convinzione di vedere le righe come le vedevano gli altri.
Asch scoprì anche che se il partecipante forniva la risposta per iscritto, anziché a voce, la conformità scendeva al 12,5%.
Questi studi in definitiva spiegano quanto facilmente si può essere preda di omologazione, tanto da rinnegare le nostre sensazioni per aderire al pensiero della maggioranza.
Questa consapevolezza dovrebbe spronare verso una costante ricerca d'indipendenza e autonomia del pensiero perché, come scrive Walter Lippmann: 'Quando tutti pensano nella stessa maniera, allora nessuno pensa veramente'.
Anche il mondo giudiziario non è immune dal conformismo. Anzi, quando si entra nelle aule di un tribunale, ci si ritrova in uno dei mondi conformisti per eccellenza.
A partire dall'abbigliamento, rigoroso e compito, che viene di fatto "imposto" agli avvocati nel nome del rispetto del "decoro professionale".
Dall'avvocato in giacca e cravatta all'avvocatessa in tallieur, sembra che oggi alcune "icone" a cui spesso si è tenuti ad adeguarsi, siano considerate sinonimo di preparazione e di affidabilità.
Ma il conformismo in ambito giudiziario può essere anche quello di un magistrato che recepisce in maniera acritica un precedente giurisprudenziale, senza valutare la specificità del caso.
Può essere ancora l'adozione di comportamenti, l'utilizzo di un determinato linguaggio e più in generale, il fare propri alcuni stereotipi che sono stati in qualche modo "appresi" e che non fanno parte della propria personalità ed esperienza.
Nell'immaginario del legale di successo, per intenderci, non c'è l'avvocato Malinconico (geniale ed esilarante personaggio creato dalla penna di Diego De Silva), trasandato e problematico, che va avanti con i "bignami" del diritto perchè insicuro rispetto alle proprie capacità professionali, bensì il sicuro Keanu Reeves nel cult movie "L'avvocato del diavolo".
Eppure il primo riesce, con il proprio modo di essere, a far emergere capacità e qualità, umane e professionali, mentre il secondo dovrà riscattare la propria anima e recuperare la propria identità per poter riprendere a svolgere il proprio ruolo.
In un'epoca come quella attuale, figlia della globalizzazione e della crisi, anche giudiziaria, oggi più che mai la professione forense dovrebbe aspirare ad uscire dagli stereotipi e dal conformismo, recuperando la propria identità, per essere più competitiva sul mercato, il quale richiede livelli sempre più alti di capacità e che punta verso nuovi modelli di professioni legali, ma anche per perseverare nella ricerca della giustizia e della legalità, attraverso le proprie convinzioni e la propria preparazione.