Maresciallo dei Carabinieri in missione, reato militare commesso in territorio estero: insubordinazione con ingiuria pluriaggravata.
Commento alla Sentenza della Corte di Cassazione, Sezione 1 penale, n. 3971 del 29.01.2014 in materia di reati militari.
Con la sentenza in epigrafe, la Suprema Corte ha avuto occasione di analizzare e chiarire la portata dell'articolo 189 c.p.m.p. comma 2, il quale tutela la dignita' e l'onore del superiore oltre all'effettivita' del rapporto gerarchico, funzionale come è noto al mantenimento della compattezza delle forze armate.
L'analisi si è soffermata poi sulla tipologia e specificità dei rapporti militari.
Il particolare rigore cui sono improntati i rapporti militari, conduce infatti a considerare offesa all'onore ed al prestigio ogni atto o parola di disprezzo verso il superiore ed anche il tono arrogante, siccome contrari alle esigenze della disciplina militare per la quale il superiore deve essere tutelato nell'espressione della sua personalita' umana e anche nell'ascendente morale che deve accompagnare l'esercizio dell'autorita' del grado e la funzione di comando.
Il caso traeva spunto dalla sentenza del Tribunale Militare di Roma che dichiarava TS colpevole del reato di insubordinazione con ingiuria pluriaggravata perchè, quale Maresciallo dei Carabinieri in missione all'estero, rivolgeva alcune espressioni ingiuriose al Ten. Col. GFS, mediante messaggi di posta elettronica allo stesso diretti: "non credo che lei abbia le competenze tecnico professionali, la invito ad evitare di muovermi i suoi commenti denigratori dubitativi, detta scomposta azione di comando disturba sterilmente la concentrazione sulla mia attivita' che ha priorita' assoluta". Per l'effetto lo condannava alla pena di mesi 4 di reclusione con i benefici.
Il procedimento seguitava il suo corso e perveniva a sentenza della Corte militare di appello, che confermava la condanna limitatamente alle espressioni ingiuriose "detta scomposta azione di comando disturba inevitabilmente e sterilmente la concentrazione sulla mia attivita' che ha priorita' assoluta", ed esclusa l'aggravante del pubblico scandalo prevista dall'articolo 47 c.p.m.p., n. 4, riduceva la pena inflitta a mesi due di reclusione militare, ritenendo che le restanti espressioni fossero sussumibili nel diritto di critica.
Quindi, avverso la sentenza il difensore di TS ricorreva reclamando violazione di legge e mancanza e/o manifesta illogicita' della decisione nella parte in cui la Corte di appello ha attribuito valenza ingiuriosa all'uso dell'aggettivo "scomposta" riferita all'azione di comando svolta dal superiore gerarchico, mentre si tratta di espressione che non sembra esprimere alcun contenuto intrinsecamente lesivo del prestigio ed in genere delle qualità personali del superiore; la condotta specificamente ascritta all'imputato doveva essere parametrata all'interno della sfera del diritto di critica; l'erronea applicazione della legge penale, mancanza o manifesta illogicita' della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza della aggravante prevista dall'articolo 47 c.p.m.p., n. 4 di aver commesso il fatto in territorio estero: secondo il ricorrente l'aggravante richiede l'estrinsecazione in territorio estero di una relazione fisica diretta tra offeso e offensore; insufficiente motivazione in ordine alla affermazione che le caserme italiane all'estero non godono della extraterritorialita'; l'erronea applicazione della legge penale e vizio della motivazione nella parte in cui la Corte ha concesso circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza, anziche' di prevalenza, rispetto alla aggravante ritenuta.
La Suprema Corte riteneva infondato il ricorso, argomentando come segue.
La Corte di appello militare aveva ritenuto che l'epiteto "scomposta", affibbiato all'azione di comando posta in essere dal superiore, ne offendesse certamente il prestigio e la reputazione mettendo in dubbio le competenze professionali, con particolare riguardo alla espressione secondo cui l'azione di comando del superiore disturba sterilmente l'attivita' di istituto dell'imputato; riteneva come le parole utilizzate dal ricorrente esulassero completamente dal diritto di critica, risolvendosi in un generale e generalizzato giudizio negativo sulle attitudini al comando del superiore.
A giudizio della Corte, le argomentazioni svolte, incensurabili nel merito, erano giuridicamente corrette, dovendosi considerare la peculiare oggettività giuridica della fattispecie di insubordinazione prevista dall'articolo 189 c.p.m.p., comma 2, la quale tutela non solo la dignita' e l'onore del "superiore", ma l'integrita' e l'effettivita' del rapporto gerarchico, che e' funzionale al mantenimento della compattezza delle forze armate.
Inoltre il rigore che connota i rapporti nella disciplina militare, portava a ritenere offesa all'onore ed al prestigio ogni atto o parola di disprezzo verso il superiore financo il tono arrogante, perché contrari alle esigenze della disciplina militare per la quale il superiore deve essere tutelato anche nell'ascendente morale che deve accompagnare l'esercizio dell'autorità del grado e la funzione di comando. ( conformi Sez. 1, n. 7957 del 20/12/2006 - dep. 26/02/2007, Frantuma, Rv. 236355; Sez. 1, n. 1172 del 12/07/1989 - dep. 30/01/1990, Pesola, Rv. 183159 ).
La Corte militare di appello confermava quindi la sussistenza dell'aggravante di aver commesso il fatto in territorio estero, sul rilievo che le caserme militari all'estero utilizzate durante le missioni internazionali non godono del regime di extraterritorialità; il motivo di ricorso proposto era stato infatti giudicato inammissibile perché caratterizzato da genericità, poiché non offriva alcuna valida e persuasiva argomentazione a sostegno della ipotizzata extraterritorialità delle caserme italiane all'estero impiegate nel corso di missioni internazionali di pace, ma deduceva un inesistente difetto di motivazione sul punto della sentenza impugnata.
Avv. Francesco Pandolfi - diritto militare - 0773 487345 3286090590 francesco.pandolfi66@gmail.com