Avv. Federica Federici - f.federici@studiolegalefederici.it

 

Il diritto in senso soggettivo indica la pretesa di un soggetto a che altri assuma il comportamento prescritto da una norma imposto a questi nell'interesse del primo, sicché si configura come interesse protetto dal diritto oggettivo. Esso rappresenta quindi un potere, attribuito alla volontà del soggetto e garantito dall'ordinamento giuridico, per il soddisfacimento dei propri interessi ed è costituito da due elementi; interesse e volontà. La forza di tale diritto non risiede nel suo titolare, ma nell'ordinamento giuridico che il soggetto può volgere in sua difesa nei suoi interessi, come espressione di libertà. Tuttavia non sempre la tecnica di formulazione di una norma segue lo schema tradizionale di imposizione di un dovere ad un soggetto contrapposta al riconoscimento di un diritto, così come non sempre le norme di diritto oggettivo che prescrivono doveri sono traducibili in norme che riconoscono diritti soggettivi (si pensi alle norme di diritto pubblico che impongono doveri e divieti di protezione di interessi solo generali dove la pretesa di esigere l'osservanza di doveri e di divieti spetta al soggetto Stato che impersona l'intera società).

Il diritto soggettivo dello Stato concorre o si integra quindi con quello dei singoli.

Nella categoria dei diritti soggettivi si distinguono due sottocategorie: i diritti assoluti e quelli relativi: i primi sono riconosciuti ad un soggetto nei confronti di tutti come moltitudine indeterminata di soggetti passivi (diritti reali, diritti della personalità, ecc.); i secondi spettano nei confronti di una o più persone determinate o determinabili (diritti di credito, di famiglia, ecc.).

Questo impianto teorico regge fintanto che si ragiona in termini di norme che impongono divieti o obblighi: in realtà esistono anche norme che espongono i destinatari a situazioni che non sono definibili né come obbligo (dovere di comportarsi in un certo modo) né come divieto (dovere di non comportarsi in un certo modo). Questo scenario può essere definito soggezione: un soggetto subisce passivamente le conseguenze di un atto altrui, per cui la situazione attiva si sostanzia in un potere (sia di diritto pubblico - potere sovrano che privato - diritto potestativo). Si è sempre nell'ambito delle facultas agendi, sostanza del diritto soggettivo, ma sono tutelate e riconosciute tramite una manifestazione unilaterale della volontà di un soggetto agente, non essendogli attribuita un'immediata signoria su una res o una posizione di pretesa rispetto ai singoli obbligati, ma la possibilità di agire con una volontà che il soggetto passivo deve subire senza poter o dover fare alcunché, subendone solo gli effetti (anche laddove dovesse occorrere una pronunzia integrativa del giudice).

Si pensi al diritto di recesso/disdetta da un contratto, o il diritto dell'imprenditore di licenziare un proprio dipendente o di quest'ultimo di dare le proprie dimissioni, al diritto di prelazione, al diritto di accettare un'eredità, di revocare un mandato, di affrancare un'enfiteusi, al diritto di riscatto pattuito in una vendita.

La buona fede serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione.

Oggi, i principi della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - come l'ancoraggio alla funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principi si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve accompagnare il contratto nei suo svolgimento, dalla formazione all'esecuzione, ed, essendo espressione del dovere di solidarietà fondato sull'art. 2 della Costituzione, impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire nell'ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche.

Il criterio della buona fede costituisce, sicché, uno strumento, per il giudice, finalizzato al controllo - anche in senso modificativo o integrativo - dello statuto negoziale; e ciò quale garanzia di contemperamento degli opposti interessi. Il giudice, quindi, nell'interpretazione secondo buona fede del contratto, deve operare nell'ottica dell'equilibrio fra i detti interessi.

Di recente la Cassazione stessa ha ribadito quanto sopra, ovvero che i principi della buona fede oggettiva e dell'abuso del diritto debbono essere selezionati e rivisti alla luce dei principi costituzionali e della stessa qualificazione dei diritto soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principi si integrano a vicenda: la buona fede come canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata; l'abuso come prospettiva di correlare i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi vengono conferiti dall'ordinamento appunto.

Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. Peraltro la dottrina ha spesso ritenuto più idonea la locuzione "eccesso". Trattasi in ogni caso di uso anormale del diritto soggettivo o della situazione giuridica attiva (diritto potestativo su cui gli aspetti legati al confine tra diritto e abuso sono ancora più problematici), non rispondente agli scopia etici e sociali per cui essi sono riconosciuti dall'ordinamento, suscettibile quindi di transitare nell'area dell'illecito.

Tre sono i diversi orientamenti in merito al fondamento giuridico del divieto di abuso del diritto.

Alcuni autori sostengono che l'abuso di diritto non sia un principio generale del nostro ordinamento che sarebbe ispirato, invece, al principio metagiuridico qui iure suo utitur neminem laedit; altri autori invece hanno ravvisato nel nostro ordinamento molteplici norme, codificate quindi, che sarebbero un'espressione del generale principio del divieto di abuso: l'articolo 833 cod. civ. sugli atti emulativi; gli articoli 1175 e 1375 cod. civ.; l'articolo 96 cod. proc. civ., relativo al divieto di lite temeraria nel processo; l'articolo 2043 cod. civ. e l'art. 33 Codice del Consumo sulle clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore.

La giurisprudenza aderisce ad un terzo orientamento che desume ed astrae tale fondamento da quelle disposizioni normative che consentono di sindacare gli atti di esercizio di un diritto sulla base di criteri non formali di valutazioni. Con tale locuzione si individua un'ipotesi di responsabilità del titolare di una posizione giuridica soggettiva esercitata in modo tale da divenire fonte di illecito, non più meritevole di tutela pur innestandosi in un comportamento formalmente conforme al diritto, nell'ambito della proprietà, del rapporto obbligatorio e dell'autonomia contrattuale. In questi ambiti è possibile individuare il carattere anormale e di deviazione dall'ordinamento.

La violazione del dovere di buona fede - che opera nei rapporti obbligatori fin dalle trattative (responsabilità precontrattuale) e nell'esecuzione - di cui all'art. 1375 cod. civ. può configurarsi come abuso del diritto laddove un soggetto esercita il proprio diritto per realizzare uno scopo diverso da quello per il quale è preordinato, riconosciuto e tutelato.

Si pensi ad un contraente che vuole sciogliersi da una vendita che non ritiene più vantaggiosa e, per poterne ottenere la risoluzione, esige il prezzo scegliendo volutamente un momento di temporanea difficoltà economia del compratore che non potrà più adempiere dopo l'altrui domanda di risoluzione.

Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto;

2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte.

L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. È ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede.

Come conseguenza di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sé strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata.

L'accertamento dell'abuso del diritto postula pertanto una verifica in concreto delle modalità di esercizio della posizione giuridica astrattamente riconosciuta dall'ordinamento, nel senso di verificare se la condotta attuativa della pretesa soggettiva possa ragionevolmente riferirsi allo spazio operativo riconosciuto in astratto come lecito dall'ordinamento. E' l'aspetto dinamico e non statico che opera la qualificazione tecnico-formale del diritto soggettivo o situazione giuridica soggettiva (vedi diritto potestativo).

In tal senso l'ordinamento appronta uno strumento di controllo degli atti interprivatistici volto ad evitare che il titolare di una situazione giuridica di vantaggio non dia vita, nel suo concreto operare, ad esternalità negative non previste, non ammesse e non tutelabili dall'ordinamento stesso. Pertanto all'aspetto soggettivo (animus nocendi) si unisce un criterio valutativo e quindi oggettivo.

La difficoltà risiede nell'individuazione dei limiti dei poteri spettanti al titolare di tale situazione: dove comincia l'abuso e dove termina il diritto è l'aspetto problematico sia a livello dottrinale che giurisprudenziale della questione. Non si tratta difatti solo di individuare il fondamento giuridico del divieto di abuso del diritto o di stabilire se possa considerarsi vigente un principio che come abbiamo visto è inespresso a livello normativo come divieto assoluto e tipizzato.

Ipotesi concrete di abuso del diritto nei rapporti obbligatori sono quelle in cui la dottrina ha individuato la c.d. exceptio doli generalis in una duplice direzione: il divieto asserito di venire contra factum proprium, impedendo ad un soggetto di adottare un certo comportamento che sia in contrasto con uno precedente, e che genera una situazione di affidamento incolpevole nella controparte; e quella della negazione di tutela giuridica al soggetto che intenda trarre vantaggio da un suo precedente comportamento scorretto: secondo alcuni autori ciò ha comportato la coincidenza di tale exceptio doli generalis con il concetto stesso di abuso del diritto. In questo senso soccorrono delle previsioni normative a tutela delle violazioni di cui si sta trattando: il contratto autonomo di garanzia evita gli abusi derivanti dal pagamento a prima richiesta e senza eccezioni; la fidejussione omnibus permette che lo svolgimento del rapporto tra banca e garante avvenga in maniera corretta; esistono norme che tutelano i soci consentendo loro di impugnare il bilancio contro gli abusi.

Nel campo della difesa della concorrenza il legislatore ha previsto il divieto espresso per l'abuso di posizione dominante (art. 3 L. 287/90 in rispondenza al dettato comunitario di cui agli artt. 81 e 82 del Trattato UE). Quel che si sanzione non è tanto la creazione di una posizione di oggettivo dominio o predominio nel mercato di una determinata categoria merceologica, bensì l'abuso che il soggetto che si trovi in tale situazione ne faccia per impedire ad altri potenziali concorrenti "entranti" l'accesso al mercato di riferimento. Altrettanto vietate le varie pratiche commerciali - strumentali o supplementari - a tale scenario come l'imposizione diretta o indiretta di prezzi di acquisto, di vendita o di altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose. In generale viene sanzionato l'abuso nei rapporti tra imprenditori.

Nell'ambito dei diritti reali un'espressa previsione di divieto di abuso del diritto è il divieto dei c.d. atti emulativi di cui all'art. 833 cod. civ., che sono appunto quegli atti con i quali il proprietario verrebbe ad abusare del potere riconosciutogli dalla legge, danneggiando altri senza un proprio vantaggio 8il quod alii nocet et sibi non prodest, non licet! di Accursio. Secondo la giurisprudenza tale abuso si verifica al ricorrere di due elementi: 1) che l'atto di esercizio del diritto non arrechi alcuna utilità al proprietario; 2) che tale atto abbia il solo scopo di nuocere o arrecare molestia agli altri. Anche una minima utilità per il proprietario è sufficiente a negare il carattere emulativo dell'atto.

Nello stesso ambito l'abuso da parte dell'usufruttuario che quando è grave causa l'estinzione del diritto ope iudicis: l'usufruttuario ad esempio aliena il bene o lo deteriora o lasca andare in deperimento per mancanza di ordinaria manutenzione e riparazione. Viene lasciata alla discrezionale valutazione del giudice che per evitare l'estinzione del diritto, potrà decidere che questi dia opportune garanzie anche nel caso ne sia esente o potrà stabilire che i beni siano locati o posti in amministrazione a sue spese.

In materia societaria la giurisprudenza ha frequentemente - con vari arresti e pronunce non sempre tra esse conformi - esaminato i casi di abuso della personalità giuridica (socio tiranno o presenza fittizia di un socio di minoranza) o il caso in cui nelle società per azioni la maggioranza delibera un aumento di capitale al solo scopo di liberarsi di una scomoda minoranza, sapendo che questa non sarà in grado di sottoscrivere le azioni di nuova emissione. Inoltre, è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti imponendo, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale).In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale. La conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza.

Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari dove l'abusiva concessione di credito ha rappresentato terreno fertile per analogo dibattito, è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benché pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari.

In generale si è sottolineato il dovere di comportamento gravante sulle banche e il divieto di concedere un credito ad imprenditori privi di meritevolezza, pronunciandosi anche su aspetti a corollario di questo scenario come  la responsabilità nei confronti di imprese in r con quella finanziata o nei confronti dei creditori dell'impresa finanziata abusivamente. In generale tale tipologia di responsabilità viene considerata di tipo aquiliano, come responsabilità da fatto illecito, configurandosi per taluni anche la possibilità di azioni di massa in tal senso.

E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli.

In materia contrattuale, poi, gli stessi principi sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione, al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c. ed al contratto autonomo di garanzia ed "exceptio doli". Dalla sentenza Cassazione civile (SENTENZA RENAULT) si possono enucleare importanti elementi di teoria generale. La Cassazione prende posizione sull'argomento, riconoscendo all'abuso di diritto il ruolo di principio generale del diritto civile, con una sentenza esemplare per chiarezza e completezza. Costituiscono principi generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica come specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi.

Con una recente pronuncia si è considerato abusivo anche il c.d. frazionamento del credito rispetto ad un difforme e precedente orientamento che lo riteneva ammissibile, sulla base dei doveri di solidarietà, buona fede e correttezza di cui si è fatta più volte menzione, da considerarsi principi costituzionalizzati, in tale contesto ancorandoli anche alla necessità di tutelare e proteggere la persona del partner negoziale/controparte e del rispettare il principio del giusto processo.

Si è discusso anche sulla configurabilità dell'abuso quando si tratta di rifiuto da parte del creditore ad accettare un assegno circolare come forma di pagamento. Secondo un primo orientamento trattandosi di datio in solutum è legittimamente rifiutabile, secondo altri ciò non deve contrastare in ogni caso la buona fede, soluzione questa adottata anche dalle SS.UU. della Cassazione che ha sottolineato la necessità di un giustificato motivo.

Del principio dell'abuso del diritto è stato fatto frequente uso in materia fiscale e tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo. Un principio di notevolissima rilevanza pratica è stato espresso di recente dalla Corte di Cassazione (Sezione Tributaria) per la quale non sono necessarie sanzioni penali per l'elusione e l'abuso del diritto, sottolineando che operazioni elusive, di abuso del diritto, da un lato, e fraudolente e fittizie, dall'altro, sono equivalenti solo quanto al fatto che il tributo viene comunque dovuto (e il vantaggio fittizio o elusivo non può essere riconosciuto). Esse non sono invece equivalenti quanto alla applicabilità delle sanzioni, che non sono applicabili, per difetto di legge che le preveda, per le condotte solo elusive o di abuso del diritto. Le affermazioni conformi alla precedente giurisprudenza riguardano la sussistenza di una generale clausola antielusiva in Italia, il cui fondamento si trarrebbe dal principio di capacità contributiva e nel principio di solidarietà e la coincidenza dell'abuso del diritto tributario con il risparmio fiscale non motivato da valide ragioni economiche. Due affermazioni molto criticate (se non altro per la radicale contrarietà di tale orientamento con la giurisprudenza comunitaria che ravvisa l'abuso non nel risparmio ottenuto senza valide ragioni economiche, ma nel risparmio ottenuto violando lo spirito delle norme che prevedono il risparmio, se non sussistono valide ragioni economiche).

Essa di contro sottolinea a chiare lettere che la stessa conclusione non potrebbe reggere quando si trattasse di "punire" il contribuente per "violazioni": nell'ambito del sistema sanzionatorio tributario, infatti, non è prevista la punibilità delle condotte elusive, almeno fino a quando la legge non si aggiornerà, affiancando alle operazioni fraudolente, alle false rappresentazioni contabili, ecc. la previsione della punibilità di condotte di aggiramento dello spirito della legge. In effetti, punire il contribuente, in assenza di legge che preveda la violazione, per aver rispettato la lettera della legge (e violata la ratio) sarebbe soluzione contrastante con i più elementari canoni di civiltà giuridica i principi costituzionali (e con gli obblighi internazionali dello Stato).

Avv. Federica Federici - f.federici@studiolegalefederici.it


Altri articoli che potrebbero interessarti:
In evidenza oggi: