Il prossimo 17 giugno le Sezioni Unite sono chiamate a prendere posizione con riguardo alla più significativa novità emersa in seno alla sentenza-trattato che, nello scorso gennaio, è stata pronunciata dalla Cassazione (Cass. 23 gennaio 2014, n. 1361): vale a dire la risarcibilità del danno da perdita della vita.
In attesa di conoscere il destino di tale voce risarcitoria, appare utile interrogarsi sul principale problema pratico che si tratta di risolvere laddove gli ermellini decidessero di confermare la svolta interpretativa indicata da Cass. 1361/2014: vale a dire la quantificazione del pregiudizio. A tale proposito, quest'ultima sentenza
osserva che il danno da perdita della vita non è contemplato dalle Tabelle di Milano. Viene, pertanto, ritenuta ammissibile qualsiasi modalità che consenta di addivenire a una valutazione equa, ritenendo a tal fine non idonea "una soluzione di carattere meramente soggettivo, né la determinazione di un ammontare uguale per tutti, a prescindere dalla relativa personalizzazione (in considerazione ad esempio dell'età, delle condizioni di salute e delle speranze di vita futura, dell'attività svolta, delle condizioni personali e familiari della vittima)". La sentenza rammenta, altresì, che la giurisprudenza di merito, a fronte della lesione del bene vita in sé considerato, ha talora utilizzato ai fini liquidatori il criterio tabellare relativo alla quantificazione del danno derivante da una lesione alla salute, riferito a un soggetto con invalidità al 100%; in altri casi è stato richiamato l'indennizzo previsto dalla l. 497/1999, attribuito ai parenti delle vittime del disastro del Cermis. La S.C. rammenta, infine, la possibilità di utilizzare il criterio del rischio equivalente, elaborato dalla dottrina nordamericana, evidenziando - d'altro canto - come esso si esponga al rischio di sovrastima nella versione soggettivistica (che si riferisce alla somma che la vittima sarebbe disposta a pagare per evitare il rischio di morte) ovvero al pericolo di indifferenza nei confronti della situazione della vittima, ove applicato nella versione statistico-oggettiva (la quale fa riferimento alla somma che una collettività sarebbe disposta a pagare per ridurre le probabilità di morte di un soggetto, non individuato, alla stessa appartenente).La Cassazione non sembra propensa ad accogliere alcuna di tali indicazioni, sottolineando - in particolare - che "l'autonomia del bene vita rispetto al bene salute/integrità psico-fisica impone peraltro di individuare un sistema di quantificazione particolare e specifico, diverso da quello dettato per il danno biologico". Ma - questo è il punto - è davvero opportuno rifuggire da ogni riferimento al sistema di valutazione attualmente applicato in ordine al danno non patrimoniale derivante da lesione dell'integrità psico-fisica? Da questo punto di vista, si tratta di ricordare che in senso contrario appare, ad esempio, orientata la proposta di legge n. 1063 del 28 maggio 2013, dove si afferma che in caso di morte del soggetto danneggiato, il risarcimento del danno da quest'ultimo subìto dovrà essere quantificato nella misura dell'80% delle somme che si ricavano dalle tabelle relative al danno non patrimoniale derivante da lesione del diritto alla salute.
Ora, appare senz'altro condivisibile l'idea che la vita è bene diverso dalla salute. Ciò non significa, tuttavia, che la quantificazione del danno legato alla perdita della vita non possa avvenire utilizzando come termine di paragone le somme liquidate a fronte dei danni derivanti dalla lesione dell'integrità psico-fisica. A conferma di una conclusione del genere, soccorre proprio la considerazione, formulata sempre dalla sentenza 1361/2014, secondo cui la vita, quale bene supremo, racchiude in sé tutti gli altri, per cui la relativa perdita è foriera "non già di qualche effetto o conseguenza, bensì di tutti gli effetti e conseguenze". Simili rilievi si prestano a giustificare una liquidazione che costruisca una proporzione - in termini liquidatori - tra danno da perdita della vita e danno non patrimoniale conseguente alla lesione alla salute.
Il termine di riferimento dovrà, in questa prospettiva, essere quello rappresentato dal pregiudizio che sarebbe stato liquidato, alla vittima del decesso, a fronte di un'invalidità pari al 100%. Se tale importo esprime, in effetti, il valore monetario di una vita totalmente menomata, ad esso non potrà essere inferiore il valore di quella che, a causa della morte, diventa una "vita non vissuta". In verità, le considerazioni quanto alla natura del danno da perdita della vita - in particolare, quelle relative alla configurabilità dello stesso come danno-conseguenza - appaiono ben più complesse rispetto a quelle che possono discendere da questo semplicistico parallelismo. Al di là degli approfondimenti teorici che appare necessario formulare lungo questo versante, resta il fatto che una relazione del genere appare (in prima battuta) quella che meglio si presta a rispecchiare il sentire della coscienza sociale, alla quale la valutazione equitativa del danno non patrimoniale deve risultare in ogni caso improntata; un riferimento, del resto, che appare imprescindibile anche nella costruzione di future tabelle, la cui adozione si renderà necessaria laddove il riconoscimento del danno da perdita della vita venga a breve suggellato dalle Sezioni Unite.