di Carla Romano - carlaromano.cr@libero.it

«Con l'art. 3, comma primo, del d.l. n. 158/2012 conv. in L. 189/2012, c.d. Legge Balduzzi ("L'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene alle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo"), il Legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l'irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilità extracontrattuale, ma non ha inteso certamente prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità aquiliana. Non sembra ricorrere, dunque, alcunché che induca il superamento dell'orientamento tradizionale sulla responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni».

È quanto statuito dalla Corte di Cassazione con ordinanza 17 aprile 2014 (Rel. Frasca), la quale, nel merito, ha dichiarato inammissibile il ricorso contro un'ordinanza emessa dalla Corte di Appello di Torino ex art. 348-ter c.p.c. ed ha rigettato il ricorso contro la sentenza del Tribunale di Novara 21 giugno 2012.

Per comprendere appieno la problematica sottesa a tale ordinanza, è necessario preliminarmente fare riferimento al rapporto -paziente- medico-struttura sanitaria.

Per ciò che concerne la responsabilità delle strutture sanitarie può configurarsi una responsabilità contrattuale e ciò sul rilievo che l'accettazione del paziente in ospedale comporti sempre la conclusione di un contratto, fonte principale di obbligazioni giuridiche ex art. 1173 c.c.

Tale contratto, denominato di "spedalità", ha natura autonoma ed atipica e può essere definito come contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti di terzo.

Da tale contratto sorgono a carico dell'ospedale, accanto agli obblighi latu sensu alberghieri (in caso di ricovero), quelli di messa a disposizione del personale medico o paramedico e della fornitura di ogni attrezzatura medica necessaria.

Ai sensi dell'art. 1218 c.c., la responsabilità della struttura sanitaria, avendo natura contrattuale, può conseguire quindi all'inadempimento delle obbligazioni direttamente a carico dell'ente oppure può fondarsi sulla previsione dell'art. 1228 c.c., ai fini dell'operato dei propri medici ausiliari, poiché il codice prevede che il debitore, che nell'adempimento dell'obbligazione si avvale dell'opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro.

Se ne deduce che un paziente, il quale si senta leso nei suoi diritti, potrà agire nei confronti dell'ente ospedaliero, godendo, in sede giudiziale, di un onere probatorio piuttosto favorevole, il quale prevede a carico del danneggiato l'allegazione del solo inadempimento imputabile ad un dipendente della struttura sanitaria ed astrattamente idoneo a provocare il danno.

Il paziente può oltretutto agire direttamente nei confronti del medico autore dell'illecito, però la natura della responsabilità di quest'ultimo non è apparsa sempre pacifica.

Fino agli anni ‘90 si riteneva che tra medico e paziente non potesse ravvisarsi alcun rapporto contrattuale, poiché il primo risultava estraneo al contratto di spedalità, con la conseguenza che, per i danni arrecati ai malati, poteva sorgere esclusivamente in capo a questi una responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.

Ne derivava che un unico comportamento determinava la fattispecie, ammissibile nel nostro ordinamento, di concorso tra responsabilità contrattuale (struttura-paziente) ed extracontrattuale (medico-paziente).

La responsabilità aquiliana rendeva però gravosa la situazione del danneggiato, sia in termini di onere probatorio, il quale risultava più complesso, sia in termini di prescrizione, la quale non era decennale ma quinquennale.

Numerose critiche vennero mosse alla teoria aquiliana, in primo luogo, con riferimento all'equiparazione del medico a un "quisque de populo", ritenuta inaccettabile poiché si trattava di operatore appartenente ad una professione c.d. protetta e in quanto tale richiedente un'abilitazione da parte dello Stato, in mancanza della quale si sarebbe perseguibili ex art. 348 c.p. per abusivo esercizio della professione. In secondo luogo, si criticavano i limiti di tutela per i danneggiati derivanti dall'applicazione dell'art. 2043 c.c.

Un allontanamento da tale regime di responsabilità si è registrato nel 1999, a seguito di una significativa svolta giurisprudenziale. La Cassazione è giunta ad affermare che esistono delle relazioni, come quella tra sanitario e paziente, che sono qualificate ed in quanto tali impongono determinati obblighi di protezione, nonché comportamentali. Tali obblighi, anche se non scaturenti da un contratto, si fondano su un "contatto sociale", profilando così una natura contrattuale (Cass., n. 589/1999).

Si riteneva dunque, per la prima volta, che la violazione degli obblighi che fanno capo al medico non potesse essere sanzionata come lesione del principio del neminem laedere ex art. 2043 c.c., poiché ad essere lesi erano gli obblighi nascenti da relazioni qualificate preesistenti, configurando il sorgere di una responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., al confine tra contratto e torto.

L'espressione "contatto sociale", di elaborazione dottrinale (Castronovo), trova il suo fondamento nella teoria civilistica della responsabilità per inadempimento e fa riferimento ad un rapporto socialmente tipico riconosciuto dall'ordinamento giuridico, nel quale, prescindendo da un precedente vincolo in senso stretto, il danneggiante è legato al danneggiato da una relazione di fatto. Il rapporto obbligatorio di tipo protettivo che sorge, a seguito di tale contatto tra medico e paziente, viene garantito poiché si sostanzia nell'affidamento in questi riposto dalla controparte, la quale nutre un'aspettativa nella professionalità ed arte del medico, ed a cui si riconnettono, in forza di canoni di correttezza e buona fede ex art. 1175 c.c., determinati doveri di conservazione della sfera giuridica altrui.

La Corte basò normativamente la figura del contatto sociale sull'atipicità delle fonti di obbligazioni rinvenibile nell'ultima parte dell'art. 1173 c.c., tramite l'espressione "ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico".

La professionalità del medico, oltre a fonte di affidamento per il paziente, divenne fonte di obbligazione, a prescindere dunque dall'esistenza di un contratto d'opera professionale.

Il rapporto di mero fatto che prendeva origine dal contatto sociale determinò obbligazioni coincidenti con quelle di un comune contratto d'opera professionale, ovvero nel caso del medico, la prestazione doveva rispondere a specifiche competenze tecniche e connotate da diligenza, perizia e professionalità.

Sotto il profilo probatorio, la giurisprudenza ritenne inoltre che l'attore dovesse limitarsi a provare il contratto o contatto sociale, allegando il solo inadempimento del sanitario astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, restando a carico del debitore (medico) l'onere di provare di aver tenuto un comportamento diligente.

Nonostante l'importanza storica della sentenza n. 589/1999, negli anni si sono però susseguite pronunce contrastanti, poiché alcune di esse sono tornate ad ascrivere tale responsabilità al novero della tutela extracontrattuale.

A dirimere il contrasto sembrava essere stato risolutivo l'intervento delle Sezioni Unite, le quali affermarono che "la responsabilità della struttura sanitaria, come anche quella del medico dipendente, avesse natura contrattuale. In particolare, quest'ultima si fondava sul contatto sociale tra il medico ed il paziente ricoverato" (Cass., S.U., n. 577/2008).

In questo scenario si è registrato un progressivo aumento del contenzioso giudiziario, con la conseguenza che si sono diffuse, in ambito sanitario, situazioni di "prassi difensive" ( o c.d. medicina difensiva), con il sotteso rischio che le regole di condotta elaborate dalla giurisprudenza hanno finito col porsi, impropriamente, quale criterio guida all'operato del sanitario, non più predisposto, in determinate situazioni, ad assumere i rischi derivanti dall'esercizio della professione medica.

Per contrastare le pratiche di c.d. medicina difensiva è intervenuto allora il legislatore con la c.d. Legge Balduzzi (D.L. 158/2012 conv. in L. 189/2012).

L'art. 3, comma primo, di tale legge stabilisce che l'esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività, si attenga alle guide lines e best pratices riconosciute dalla comunità scientifica, non debba rispondere penalmente per colpa lieve, fatto salvo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c.

Il richiamo all'art. 2043 c.c. da parte del Legislatore sembrava ricondurre la responsabilità per colpa medica nell'ambito della responsabilità extracontrattuale, restaurando il regime di responsabilità civile anteriore al 1999.

Non condivideva tale assunto un primo orientamento giurisprudenziale, secondo il quale l'art. 3, comma primo, L. 189/2012 non imponeva alcun ripensamento dell'attuale inquadramento contrattuale della responsabilità sanitaria, ma si limitava a porre un'esimente in ambito penale, dove l'esercente si fosse attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, facendo salvo l'obbligo risarcitorio (Trib. di Arezzo, sent. 14 febbraio 2013).

A fondamento di tale orientamento si ritiene che la norma, nel secondo periodo, abbia voluto chiarire che l'esclusione della responsabilità penale abbia solo la funzione di non far venire meno l'obbligo di risarcire il danno, senza alcuna indicazione dei criteri da applicare nell'accertamento della natura della responsabilità risarcitoria.

Un opposto orientamento giurisprudenziale si basava invece su un'interpretazione letterale della disposizione in esame, ritenendo che il Legislatore avesse voluto aderire al modello di responsabilità civile medica anteriore al 1999, secondo cui in assenza di contratto il paziente poteva richiedere il danno iatrogeno esercitando l'azione aquiliana (Trib. di Enna, sent. 18 maggio 2013 n. 252).

Secondo tale orientamento, la finalità perseguita dal Legislatore doveva essere quella di alleggerire l'onere probatorio del medico facendo gravare sul paziente anche l'onere di offrire la dimostrazione giudiziale dell'elemento soggettivo dell'imputazione di responsabilità. La responsabilità aquiliana comporterebbe difatti un aggravamento dell'onere probatorio a carico del paziente danneggiato, il quale  non dovrebbe limitarsi ad allegare il solo inadempimento, ma altresì tutti i fatti, compresi quelli omissivi, e gli elementi costitutivi dell'illecito, nonché il nesso di causalità tra l'azione e l'evento.

La recente ordinanza si riallaccia al primo orientamento, sostenendo e ribadendo con forza che la Legge Balduzzi avrebbe mantenuto in vita l'orientamento fatto proprio dalla Corte con la sent. n. 589/1999, almeno sotto il profilo civilistico, nel senso che alcun alleggerimento dell'onere probatorio è previsto in favore del medico, Vera ratio del Legislatore, semmai, è stata quella di contrastare il fenomeno dilagante della c.d. medicina difensiva, predisponendo un regime di responsabilità medica meno severo. Difatti, sotto il profilo penale, l'imputabilità viene ricondotta ai soli casi di colpa grave, rimanendo esenti da responsabilità i casi di colpa lieve, sempre che vengano rispettati le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, tale esimente si riflette ovviamente anche sul piano civilistico, nel senso che il Giudice ne terrà conto in ordine all'ammontare del danno da liquidare.

Carla Romano - Studio Legale Giuseppe Amato - Via Bergamo n. 5 - Carini (PA)

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