Sono molti i contributi di ogni livello e grado che trattano dell'interpretazione della legge e il prolificare di interventi sul tema rischia di condurre a conclusioni "distorte" che travalicano il limite della normale funzione interpretativa riservata alla magistratura.
L'articolo 12 delle preleggi (ovvero delle "disposizioni sulla legge in generale", che sono leggi ordinarie dello stato e quindi fonte del diritto) stabilisce quanto segue:
Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.
Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato.
Il legislatore ha dunque voluto definire delle priorià: la legge in primo si interpreta seguendone il senso letterale. Ciò è confermato anche dal dettato costituzionale di cui all'articolo 101 comma 2 stabilisce che "I giudici sono soggetti soltanto alla legge". Ora il termine "soggetti" sta a significare che i magistrati devono sottostare all'autorità e al potere del legislatore.
Se la Costituzione, che è legge fondamentale a cui tutti i cittadini devono obbedire, stabilisce che la legge governa e prevale sul volere dei magistrati ciò significa che impone il divieto per gli stessi di discostarsi dal dettato normativo.
Insomma il potere interpretativo delle leggi può sussistere solo come ultima ratio ossia quando una controversia non può essere decisa sulla base di precisa disposizione di legge.
Ed anche in tal caso il giudice deve fare ricorso in primo luogo a disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe e, se è il caso resta ancora dubbio deve comunque attenersi ai principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato.
Insomma che le disposizioni di legge vadano seguite e non interpretate è un postulato che non ha bisogno di ulteriori argomentazioni. Anche se nei fatti sembra che troppo spesso l'attività interpretativa del magistrato vada a sostituirsi alle volontà e al dettato del legislatore.
Sta di fatto che se la libertà di interpretazione diventa mero arbitrio si rischia di mettere in discussione quelle che sono i principi cardine della convivenza civile.
Ma c'è un'altra considerazione indispensabile. Lo scopo del diritto è di "definire" le regole di tale convivenza civile ed è per questo che diventa indispensabile che le norme siano scritte in modo chiaro, univoco e definito, senza versare margine ha dubbi di alcun genere.
diventa fondamentale sotto questo profilo la semplicità anche rischiando a volte di diventare banali. Quello che voglio dire che qualsiasi legge dovrebbe essere scritte in modo tale da poter essere compresa dai cittadini e non solo dagli addetti ai lavori.
Se si lascia troppo spazio alla interpretazione delle leggi, si rischia di produrre due effetti devastanti:
- L' incertezza del diritto (che determina l'impossibilità per un cittadino di prevedere l'esito di un giudizio);
- l'arbitrarietà dell'intervento giudiziario;
Eppure la certezza del diritto dovrebbe essere le basi del nostro ordinamento giuridico.
Insomma l'attività interpretativa del magistrato dovrebbe concentrarsi generalmente nella disamina dei fatti di causa, del risultato dell'istruttoria. E solo in casi eccezionali si potrà discutere di un eventuale interpretazione di norme, ossia quando nella molteplicità della casistica dovesse emergere una fattispecie così particolare da non poter trovare una soluzione concreta nel dettato normativo.
La prima regola che va posta alla base della certezza del diritto è quella che le norme si applicano e non si interpretano e che ogni cittadino, munito di un buon vocabolario e che sia a conoscenza delle regole grammaticali, deve poter comprendere le leggi senza bisogno di un interprete.
Se poi è vero che la legge non ammette ignoranza diventa indispensabile che la legge stessa risulti chiara non interpretabile.
Non è raro riscontrare casi in cui l'interpretazione delle norme è sconfinata nell'arbitrio.
Un esempio di questo "sconfinamento" è stato trattato in questo portale laddove si è data notizia di una decisione con cui la corte d'appello di Ancona aveva "interpretato" appunto una normadella legge fallimentare che imponeva la notifica alle parti di un provvedimento adottato su un reclamo avverso una sentenza di rigetto di un'istanza di fallimento.
Secondo questa bizzarra interpretazione la notifica a chi era il destinatario dell'istanza di fallimento non sarebbe stata indispensabile perché l'imprenditore che si intendeva dichiarare fallito si era già precedentemente difeso dinanzi alla stessa corte di appello.
Una "interpretazione" questa che ha privato l'imprenditore della possibilità di difendersi nella successiva fase dinanzi al tribunale. Non essendo stato mai avvisato ormai convocato l'imprenditore è stato a sua insaputa dichiarato fallito e sono stati necessari ben due anni per ottenere la revoca della sentenza di fallimento. Inutile dire che la revoca è intervenuta quando ormai l'attività imprenditoriale risultava oramai irrimediabilmente compromessa.
la stravaganza di questa "interpretazione" sta nel fatto di aver negato un principio basilare dell'ordinamento giuridico: le parti hanno diritto di difendersi in qualsiasi fase grado del procedimento. in questo modo, travalicando il limite del tenore letterale della norma, i giudici della corte di appello hanno privato l'imprenditore del suo innegabile diritto di difesa.
Casimiro Mondino