Farà certamente discutere una sentenza emessa pochi giorni fa dalla Corte di Cassazione, che (ri)solleva il velo su due delicate tematiche, come quella dei diritti delle coppie di fatto e della "regolamentazione del c.d. fine-vita".
Gli Ermellini hanno infatti annullato un matrimonio che aveva unito 7 anni fa Corrado e Chiara, conviventi da vent'anni, per il fatto che... lo sposo era in stato di coma al momento della celebrazione.
Malgrado, infatti, il nubendo mancasse della capacità di agire, le autorità religiose non avevano avuto problemi ad accettare di congiungere i due, poiché prima di entrare in coma - ma già colpito dall'ictus che non gli avrebbe dato scampo - l'uomo aveva manifestato fortemente l'intenzione di sposare al più presto la sua compagna. E così, caso più unico che raro, il rito si era compiuto (nelle stesse stanze di un reparto rianimazione), ed era stato anche registrato all'Anagrafe del Comune. Nessuna complicazione (apparentemente) fino alla morte dello sposo, intervenuta circa un anno e mezzo dopo le nozze, quando la sorella del defunto decise di agire per far dichiarare l'annullamento del matrimonio.
Da allora, si sono susseguite in tutto cinque pronunce sia civili che penali (compresa la sentenza di condanna - poi annullata - per la funzionaria dell'Ufficio Anagrafe che aveva trascritto l'atto), fino alla decisione della Suprema Corte dello scorso 30 giugno, che definitivamente pone nel nulla il rapporto di coniugio della coppia comasca e - di conseguenza - fa venir meno lo status di vedova di Chiara, la quale dovrà probabilmente restituire l'eredità di cui si era appropriata e rischierà persino di perdere la casa in cui vive. Nulla cambia, invece, agli occhi della Chiesa, per la quale il legame indissolubile fra Corrado e Chiara è stato spezzato solo dalla morte.
Se in punto di diritto, dunque, la sentenza della Cassazione si presta a ben poche obiezioni, sotto l'aspetto umano non evita di sollevare qualche perplessità e non impedisce di provare amarezza per il mancato "riconoscimento sociale" di quella che di fatto era già da lungo tempo una moglie. Ci si interroga, a questo punto, se il legislatore debba intervenire predisponendo meccanismi che "in automatico" tutelino certe situazioni soggettive, ovvero prevedendo nuovi strumenti privatistici ad hoc.
Gli Ermellini hanno infatti annullato un matrimonio che aveva unito 7 anni fa Corrado e Chiara, conviventi da vent'anni, per il fatto che... lo sposo era in stato di coma al momento della celebrazione.
Malgrado, infatti, il nubendo mancasse della capacità di agire, le autorità religiose non avevano avuto problemi ad accettare di congiungere i due, poiché prima di entrare in coma - ma già colpito dall'ictus che non gli avrebbe dato scampo - l'uomo aveva manifestato fortemente l'intenzione di sposare al più presto la sua compagna. E così, caso più unico che raro, il rito si era compiuto (nelle stesse stanze di un reparto rianimazione), ed era stato anche registrato all'Anagrafe del Comune. Nessuna complicazione (apparentemente) fino alla morte dello sposo, intervenuta circa un anno e mezzo dopo le nozze, quando la sorella del defunto decise di agire per far dichiarare l'annullamento del matrimonio.
Da allora, si sono susseguite in tutto cinque pronunce sia civili che penali (compresa la sentenza di condanna - poi annullata - per la funzionaria dell'Ufficio Anagrafe che aveva trascritto l'atto), fino alla decisione della Suprema Corte dello scorso 30 giugno, che definitivamente pone nel nulla il rapporto di coniugio della coppia comasca e - di conseguenza - fa venir meno lo status di vedova di Chiara, la quale dovrà probabilmente restituire l'eredità di cui si era appropriata e rischierà persino di perdere la casa in cui vive. Nulla cambia, invece, agli occhi della Chiesa, per la quale il legame indissolubile fra Corrado e Chiara è stato spezzato solo dalla morte.
Se in punto di diritto, dunque, la sentenza della Cassazione si presta a ben poche obiezioni, sotto l'aspetto umano non evita di sollevare qualche perplessità e non impedisce di provare amarezza per il mancato "riconoscimento sociale" di quella che di fatto era già da lungo tempo una moglie. Ci si interroga, a questo punto, se il legislatore debba intervenire predisponendo meccanismi che "in automatico" tutelino certe situazioni soggettive, ovvero prevedendo nuovi strumenti privatistici ad hoc.
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