In presenza di un conto corrente cointestato, a carico del cointestatario, il quale, pur avendo la facoltà di compiere azioni separatamente, disponga di somme in proprio favore (effettuando prelievi o pagamenti), in misura eccedente il tetto di pertinenza, senza il consenso, espresso o tacito, degli altri cointestatari, si configura il delitto di appropriazione indebita.
Lo ha stabilito la Cassazione (II sezione penale), nella sentenza n. 29019 del 4 luglio 2014, chiamata a pronunciarsi sul ricorso di un uomo, imputato del reato di cui all'art. 646 c.p. per aver incassato, illegittimamente, l'intera somma depositata in un fondo di investimento intestato alla madre defunta e allo stesso, poiché almeno la metà della stessa somma era di pertinenza di tutti gli eredi.
Assolto dal Tribunale di Brindisi, l'uomo veniva condannato dalla corte d'Appello di Lecce che, in riforma della sentenza di primo grado, ravvisava l'elemento psicologico del reato di appropriazione indebita, per essersi impossessato dell'intera somma con la consapevolezza di agire contro la volontà dei coeredi.
La Suprema Corte, condividendo le conclusioni della corte territoriale sull'appello proposto dalle parti civili, ha rigettato il ricorso, ritenendo che la condotta dell'imputato integrasse il delitto in questione.
È configurabile, ha affermato infatti la S.C., "il delitto di appropriazione indebita a carico del cointestatario di un conto corrente bancario, il quale, pur se facoltizzato a compiere operazioni separatamente, disponga in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito degli altri cointestatari, della somma in deposito in misura eccedente la quota parte da considerarsi di sua pertinenza, in base al criterio stabilito dagli artt. 1298 e 1854 cod. civ., secondo cui le parti di ciascun concreditore solidale si presumono, fino a prova contraria, uguali".
Appropriazione indebita: guida legale