Lo Stato può davvero intervenire per dettare regole etiche e comportamentali per le quali non ci sono interessi contrapposti da tutelare?

di Roberto Cataldi 

So bene che l'argomento che sto per trattare non troverà tutti d'accordo. Ma è quanto accade ogni qualvolta si decide di trattare tematiche che dividono l'opinione pubblica.

Mi riferisco al dibattito mai sopito sulla legalizzazione delle droghe leggere. Un tema che vorrei affrontare sulla base di un principio giuridico di carattere generale a cui ritengo che il legislatore si debba attenere in ogni ambito di intervento: la legge non può limitare la libertà degli individui finché tale libertà non vada a interferire con le libertà e i diritti degli altri.

Partiamo da una considerazione: quando si è sancito dal punto di vista normativo che non vi è differenza tra droghe pesanti e droghe leggere, si è creata sicuramente una certa confusione. 

La cosa deve avere coinvolto e sconvolto (più delle droghe stesse) un bel manipolo di persone di ogni tipo di rango sociale: da spacciatori disoccupati ai consumatori pre e/o post assunzione, alle forze dell'ordine in forte imbarazzo e agli avvocati stessi, che si sono trovati in cause ridicole a difendere il proprio cliente dall'accusa di avere qualche spinello in tasca o meglio (o peggio, dipende dai punti di vista) di esserseli solo fumati.

Com'è noto, infatti, la l. n. 49/2006,  la c.d. legge Fini-Giovanardi, modificando l'art. 73 del T.U. sugli stupefacenti (d.p.r. n. 309/90), aveva sostanzialmente equiparato le droghe leggere a quelle pesanti, prevedendo pene indifferenziate da 6 a 20 anni.

Il risultato era paradossale: si realizzava, infatti, un "aggravio" per le droghe leggere e consequenzialmente un incomprensibile "sgravio" per le droghe pesanti. In altri termini, la detenzione a fini di spaccio o lo spaccio vero e proprio di marijuana venivano posti in pratica sul medesimo piano (con le ovvie differenze dovute ai quantitativi e alla rete di soggetti implicati) del traffico di cocaina.

Una legge il cui destino non poteva essere altro che quello indicato dalla Consulta che infatti, con la sentenza n. 32/2014 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della Fini-Giovanardi (artt. 4-bis e 4 vicies-ter del d.l. n. 272/2005, convertito in l. n. 49/2006), riportando in vigore il testo anteriore alle modifiche apportate (l'art. 73 del dpr 309/90) e ripristinando così con efficacia retroattiva la distinzione giuridica e di pena tra droghe pesanti e leggere (rispettivamente, reclusione da 8 a 20 anni, oltre multa, per le prime e reclusione da 2 a 6 anni oltre multa per le seconde) e nessun reato per le "modiche" quantità ad uso esclusivamente personale.

L'efficacia retroattiva provocata dalla dichiarazione di incostituzionalità inciderà anche sui processi in corso e sulla rideterminazione della pena eventualmente applicata.

Così, tra gli effetti scatenati dalla Fini-Giovanardi c'era anche stato un significativo impatto nelle nostre patrie "galere", che di certo non avevano bisogno di essere riempite, almeno non di questi tempi.

Le carceri si sono improvvisamente affollate di spacciatori di spinelli o poco più, creando una massiccia e improbabile convivenza al loro interno.

Stando ai dati, infatti, la popolazione carceraria in custodia cautelare in Italia ammonta al 45,8% e quasi un terzo (circa 8.600 persone) è in carcere per reato di spaccio e detenzione di sostanze stupefacenti, mentre del 54,2% dei detenuti cui è stata inflitta una condanna, oltre il 38% dipende da crimini legati alla droga (Rapporto 2014 "European Monitoring Centre of Drugs and Drug Addiction").

Dati significativi che diventano ancora più rilevanti se si paragonano alla media europea - dove, secondo il report, rispetto al 77,7% dei detenuti con condanna solo il 18,5% è in carcere per droga - e che dovrebbero spingere (quantomeno) ad una riflessione, considerata la loro incidenza sulla situazione di sovraffollamento delle carceri italiane e sulla possibilità di adottare "misure alternative" come avviene in altri Paesi.

Il legislatore italiano, invece, periodicamente si accorge del problema affollamento e propone leggi svuota-carceri che hanno un effetto "liberatorio" per qualche tempo fino a che il problema non si ripropone di nuovo.

Ma se ci si limitasse a legalizzare le droghe leggere il problema dell'affollamento carcerario non sarebbe forse risolto in partenza? Ancora oggi, tuttavia, per incomprensibili ragioni, non si è riusciti a vincere le forti resistenze verso la legalizzazione.

Sarà forse che in questa fase di debacle etica ed economica si vuole conservare l'illusione di essere un Paese che fa rispettare le regole "morali". E quindi niente droga legalizzata e niente quartieri a luci rosse come accade in diverse città del nord europa, trascurando completamente il fatto (o facendo finta di non vedere) che chi si becca un po' di sole a scacchi per qualche spinello, non ha nessuna difficoltà a farlo girare tra le sbarre di un carcere. Anzi il consumo è molto alto anche lì.

Ma la verità è che le resistenze che bloccano il cammino verso la legalizzazione delle droghe leggere, somigliano alle medesime che si incontrano nel nostro Paese per il riconoscimento di diritti delle coppie di fatto, per il divieto di fecondazione eterologa (solo parzialmente superato), per la libertà di scelta in tema di trattamenti di fine vita e così via.

L'elenco delle libertà "negate" o condizionate nel nostro Paese è lungo: un ampio spettro di vincoli e divieti che di fatto rappresenta un'ingerenza dello Stato nella coscienza individuale e nella sfera delle libertà individuali. Ad essere messi in discussione sono, in pratica, i diritti civili.

Ed è proprio questo il punto: ci siamo mai chiesti quale è il fine delle leggi? E quale dovrebbe essere il suo limite intrinseco?

Se la società nasce da un contratto sociale (come aveva ipotizzato Rousseau) è solo perché si vogliono definire regole di pacifica convivenza (quello che potremmo considerare "utilitarismo sociale"). E queste regole servono a regolamentare i possibili conflitti tra interessi e diritti contrapposti (o tra contrapposte libertà). Così, se qualcuno ruba una mela, lo Stato deve intervenire perché deve tutelare l'interesse di chi quella mela ha curato e raccolto (un interesse contrapposto a quello di chi di quella mela voleva appropriarsi). Ed ecco che lo Stato fa una legge per vietare il furto. 

Anche se qualcuno picchia un suo rivale lo Stato interviene. Con le sue leggi punisce il comportamento di chi aggredisce il prossimo per tutelare l'interesse (e il diritto) contrapposto alla incolumità fisica. 

Insomma lo Stato interviene di buona ragione e limita la libertà degli individui al fine di ricondurla entro un confine, confine costituito dal necessario rispetto delle libertà e dei diritti altrui.

Ma lo Stato può intervenire anche in ambiti in cui la libertà individuale non interferisce con altre libertà e i diritti altrui? Insomma si possono dettare regole di comportamento per le quali non ci sono interessi contrapposti da tutelare? O non dovremmo forse porre un limite alle leggi impedendo che ci siano ingerenze immotivate nella vita privata dei cittadini e nelle loro libertà?

Se siamo davvero un popolo di maggiorenni, non possiamo accettare che lo Stato imponga stili di vita a tutela della nostra salute o della nostra morale.

Tornando ai problemi legati alle droghe leggere, è sacrosanto vietare ad un automobilista di mettersi alla guida dopo aver assunto alcol o sostanze stupefacenti (in tal caso l'interesse contrapposto da tutelare è l'incolumità pubblica), ma fuori da contesti di questo tipo  mi risulta difficile pensare che qualche spinello (così come l'utilizzo di bevande alcoliche) possano mettere a repentaglio la libertà e i diritti di altri.

Insomma, nel contesto sociale, ciò che conta è che l'individuo non violi il generale principio del "neminem laedere" e che rispetti sempre la libertà ed i diritti degli altri. 

Se siamo un popolo di maggiorenni, come tale capace di intendere e di volere, non possiamo dunque accettare uno Stato che ci faccia la paternale, puntando il dito su comportamenti che giudica immorali, dicendoci ed imponendoci cosa fare per tutelare la nostra salute e il nostro spirito.

Ciò che dallo Stato si vorrebbe oltretutto è anche un pò di coerenza. Quando tutto il mondo riconosce i danni prodotti dalle multinazionali del tabacco (che a confronto la cannabis è solo un po' di solletico) o dell'alcool (che non è proibito ma miete ogni anno le sue vittime), o di altre centinaia di sostanze dannose con cui veniamo a contatto ogni giorno (ma che nessuno si sogna di interdire), forse qualche riflessione il legislatore dovrebbe farla.

E poi, dopotutto, non sarebbe meglio lasciare più spazio nelle carceri, sempre troppo affollate, per politici corrotti di qualsiasi colore politico essi siano, per chi truffa quotidianamente i consumatori o per chi dilapida per ragioni clientelari o lobbistiche le risorse economiche del paese? Ciò che questi signori fanno all' Italia e ai suoi cittadini è sicuramente molto più dannoso di ciò che può fare un piccolo spacciatore di spinelli o chi si coltiva qualche piantina di canapa sul balcone di casa sua. 

L'intera collettività dei maggiorenni (o meglio, per usare le parole di Kant, dei naturaliter maiorennes) può apprezzare che lo Stato abbia queste attenzioni per la loro salute ma vorrebbe anche dirgli "ce la facciamo da soli".

In definitiva, che si tratti del THC che si trova in una piantina di canapa o dell'alcool che si trova in un chicco d'uva, stiamo parlando di qualcosa che può far male (non c'è dubbio) ma da cui ognuno di noi sa bene come difendersi.

Roberto Cataldi


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