L'intermediazione da parte di un maresciallo dei carabinieri tra i soggetti arrestati e un avvocato, allo scopo di nominare quest'ultimo quale difensore di fiducia delle stesse persone tratte in arresto, integra il reato di abuso d'ufficio, indipendentemente dal movente che ha spinto il pubblico ufficiale ad attuare tale condotta.
Così ha statuito la Corte di Cassazione (V sezione penale), sentenza n. 41191 del 3 ottobre 2014, in una vicenda che vedeva protagonista un maresciallo dei carabinieri ritenuto responsabile del reato continuato di cui agli artt. 323 e 479 c.p. per aver nominato un avvocato quale difensore d'ufficio dei soggetti arrestati, nonostante lo stesso non fosse inserito nell'elenco dei difensori predisposto dal locale Consiglio dell'Ordine, sollecitando altresì gli arrestati e i loro congiunti a nominare tale avvocato quale difensore di fiducia. Alla pena inferiore di un anno e mesi quattro di reclusione per concorso nel reato di abuso d'ufficio veniva condannato anche lo stesso avvocato, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita.
Condividendo le statuizioni della corte di merito e considerando inattendibile la tesi difensiva dell'imputato secondo la quale le nomine sarebbero state indotte da difficoltà nel funzionamento del sistema di call center per il reperimento dei difensori, mentre dai dati documentali emergeva la presenza di venti legali disponibili e l'effettivo rintraccio degli stessi, la Cassazione ha ritenuto sussistenti tutti gli elementi del reato ex art. 323 c.p.
La sola esaltazione delle qualità professionali con cui l'imputato aveva caldeggiato la nomina dell'avvocato da parte degli arrestati è già condotta sufficiente, ha rammentato la Corte, "ad integrare il contestato reato di abuso d'ufficio, ravvisabile ove il soggetto agente impartisca comunque ai cittadini, con i quali abbia rapporti per ragioni inerenti alle proprie funzioni, consigli sulla nomina di un difensore".
Quanto all'elemento psicologico del reato, logici sono secondo la S.C. anche i riferimenti della sentenza impugnata all'esperienza professionale dell'imputato e ai rapporti di amicizia e convivialità tra lo stesso e il difensore, "dimostrativi della consapevolezza dell'ingiusto vantaggio conseguito al secondo a prescindere dalla conoscenza di specifici aspetti di deontologia forense", nonché il richiamo al possibile "intento" dell'imputato di ottenere, coltivando i rapporti con l'avvocato, "migliori opportunità di contatto con informatori". Il dolo intenzionale, infatti, proprio del reato di abuso d'ufficio, ha affermato la Corte "sussiste invero anche qualora il vantaggio patrimoniale procurato costituisca lo strumento che consente al soggetto agente di perseguire un fine ulteriore, lecito, che si sovrappone tuttavia, senza eliderla, alla finalità illecita di vantaggio; assumendo nel reato la posizione del movente, ben distinta da quella del dolo".
Infondati anche i motivi sostenuti dal ricorrente sul concorso nel reato di abuso d'ufficio, giacchè correttamente la corte territoriale ha individuato l'ingiustizia del vantaggio nell'accaparramento dei clienti, vietato dall'art. 19 del codice deontologico forense e pertanto produttivo di una radicale illegittimità delle conseguenti prestazioni. In merito all'assenza di comportamenti materiali del difensore imputato, finalizzati al conseguimento delle nomine, la Corte ha ricordato altresì "che il concorso dell'extraneus nel reato di abuso d'ufficio non richiede necessariamente la presenza di pressioni o sollecitazioni del primo nei confronti del secondo, essendo altresì bastevole l'esistenza di un'intesa fra i due soggetti", intesa, nella specie, peraltro ampiamente motivata.
Ritenendo, infine, altrettanto infondati i rilievi difensivi sull'inattendibilità dei testi relativamente alla configurabilità della responsabilità del reato di falso ideologico, la Corte ha rigettato i ricorsi, annullando la sentenza, senza rinvio in ordine ai fatti di abuso d'ufficio prescritti nelle more, e con rinvio alla Corte d'Appello di Cagliari perla rideterminazione della pena.
Cassazione Penale, testo sentenza 3 ottobre 2014, n. 41191