"Le posizioni interpersonali di inimicizia grave tra difensore e giudice (o un suo prossimo congiunto), non sono previste nel vigente sistema normativo quali possibili cause di ricusazione".
Così ha stabilito, testualmente, la seconda sezione penale della corte di Cassazione, nella sentenza n. 43884 depositata il 22 ottobre 2014, pronunciandosi sul ricorso di un avvocato avverso l'ordinanza di inammissibilità della corte d'appello di Trieste dell'istanza di ricusazione dal medesimo proposta contro il presidente della sezione penale del tribunale triestino.
La disciplina penale ha, infatti, affermato la Corte, contempla l'astensione e, conseguentemente, la ricusazione del magistrato, nei rapporti di grave inimicizia tra lo stesso, o un suo prossimo congiunto, e una delle parti private, senza che sia possibile alcuna estensione analogica al difensore delle parti stesse, "atteso che la norma fondamentale (l'art. 36, cui si riallaccia, in gran parte specularmente, l'art. 37) distingue espressamente il difensore e la parte privata, menzionando nelle lettere a), b), d), e) la parte privata quale titolare di posizione (sostanziale) obbligante il giudice all'astensione, e nelle sole lettere a) e b) il difensore quale portatore di posizione consimile".
Inoltre, è pacifico, hanno osservato i giudici di piazza Cavour, che, per integrare l'ipotesi di ricusazione di cui all'art. 37, 1° comma, lett. a), c.p.p., il sentimento di "grave inimicizia, per essere pregiudizievole, deve essere reciproco, deve nascere o essere ricambiato dal giudice e deve trarre origine da rapporti di carattere privato, estranei al processo, non potendosi desumere semplicemente dal trattamento riservato in tale sede alla parte, anche se da questa ritenuto frutto di mancanza di serenità", giacchè, del resto, ha precisato la Cassazione, "non può essere rimessa all'iniziativa della parte, la scelta di chi la deve giudicare". Né può valere ai fini della reciprocità dell'inimicizia grave, la circostanza che, nel caso di specie, l'avvocato abbia presentato denuncia penale nei confronti del giudice dolendosi della minaccia di essere deferito all'ordine degli avvocati; né tantomeno, le dichiarazioni rilasciate dal magistrato alla stampa, "sfavorevoli nei confronti di una protesta inscenata in un'aula del tribunale dagli esponenti del movimento Trieste libera cui aderisce il ricusante", poiché costituenti, semmai legittimo esercizio del diritto di critica che "certamente non può essere censurato dall'imputato".
Su questo assunto, la Corte ha quindi dichiarato inammissibile il ricorso e ravvisando anche profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità ha condannato l'avvocato al pagamento di una somma a favore della cassa delle ammende, oltre alle spese del procedimento.
Corte di Cassazione, testo sentenza 22 ottobre 2014, n. 43884