Avv. Prof. Stefano Lenghi
Il principio affermato dalla Suprema Corte nel caso sottoposto a sua disamina.
Con la sentenza richiamata in epigrafe la Corte di Cassazione è tornata a pronunziarsi in tema di licenziamento per giusta causa, affermandone la legittimità nel caso della commessa di un negozio, che, approfittando delle mansioni di addetta al reparto abbigliamento e ai camerini di prova, aveva intenzionalmente cambiato i talloncini segnaprezzo di due capi di abbigliamento, al fine di acquistare uno di essi con il prezzo minore, anziché al prezzo originariamente segnato.
Le vicende processuali, cui la fattispecie ha dato luogo.
A seguito del comportamento tenuto dalla addetta alle vendite, sig.ra M.R., la datrice di lavoro società I. srl adottò il licenziamento per giusta causa della dipendente.
La lavoratrice impugnò il licenziamento avanti al giudice di primo grado, il quale rigettò il ricorso.
Avverso l'appello presentato dalla dipendente contro la società A. spa (nella quale si era, nel frattempo, fusa la originaria datrice di lavoro I. srl), la Corte territoriale di Catania respinse la pretesa attorea, assumendo che:
*)
la prova testimoniale svolta in grado d'appello aveva pienamente confermato i fatti quali esposti da parte datoriale e, in particolare, che la lavoratrice si era resa responsabile, mediante un accorgimento fraudolento, di acquistare un capo di abbigliamento ad un prezzo inferiore a quello fissato nel talloncino;
**)
la sanzione del licenziamento non poteva ritenersi sproporzionata in relazione ai fatti contestati, poiché, a prescindere dal valore lieve del danno procurato all'azienda, era evidente la perdita di fiducia nella propria dipendente, che di per sé valeva come giusta causa per il licenziamento, essendo stato accertato che la M.R., profittando delle sue mansioni di addetta al reparto abbigliamento e ai camerini di prova, aveva intenzionalmente cambiato i talloncini segnaprezzo di due capi di abbigliamento, al fine di acquistare uno di essi con il prezzo minore, anziché al prezzo originariamente segnato.
Contro la decisione della Corte territoriale propose ricorso per cassazione la dipendente, argomentando, in sostanza, che i fatti contestatile erano l'effetto di una ridotta capacità visiva e che la Corte di merito non aveva, inoltre, tenuto adeguatamente conto della modesta entità del danno, dell'assenza di precedenti disciplinari, delle precarie condizioni fisiche della ricorrente e della mancata attivazione di un procedimento penale in relazione al fatto contestato.
Il pensiero della Corte di legittimità.
La sentenza, che abbiamo scelto di commentare, condividendo pienamente le argomentazioni svolte dalla Corte d'Appello di Catania, ha respinto il ricorso di parte attrice.
Innanzitutto, il Supremo Consesso, richiamandosi alla linea di pensiero già espressa in precedenza dal suo magistero giurisprudenziale, afferma, in sostanza, che la tenuità del danno patrimoniale è da considerarsi irrilevante o, comunque, non incidente, se poi il fatto oggettivo assume valore sintomatico "rispetto ai futuri comportamenti del lavoratore e, quindi, alla fiducia che nello stesso può nutrire l'azienda, essendo necessario", ai fini della riconducibilità del comportamento nell'ambito della giusta causa, "che i fatti addebitati rivestano il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e, specialmente, dell'elemento essenziale della fiducia, cosicchè la condotta del dipendente sia idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento (cfr., ex plurimis, nn.11806/1997; 5633/2001)".
Orbene, osserva la Corte, "alla luce di tali principi deve, quindi, essere condivisa la valutazione resa dalla Corte territoriale, poiché proprio il dimostrato carattere fraudolento, nella specie palesemente doloso e premeditato, della condotta della lavoratrice è sintomatico della sua, anche prospettica, inaffidabilità e, come tale, idoneo ad incidere in maniera grave ed irreversibile, nonostante la modesta entità del danno patrimoniale e la mancanza di precedenti disciplinari, sull'elemento fiduciario".
Aggiunge, poi, in secondo luogo, la Suprema Corte, che è da respingere l'assunto prospettato da parte attrice, e, secondo la medesima, confortato e dimostrato dalla prodotta documentazione circa le sue precarie condizioni di salute, in quanto "lo svolgimento dei fatti, quali accertati e descritti nella sentenza impugnata, esclude di per sé che gli stessi possano essere stati l'effetto di una ridotta capacità visiva" (la ricorrente aveva, appunto, cercato di sostenere che il cambio dei talloncini segnaprezzo sui capi di abbigliamento non era stato posto in essere intenzionalmente, dovendo esclusivamente imputarsi alla sua ridotta capacità visiva…., circostanza che la Corte ha ritenuto di poter assolutamente escludere proprio sulla base dell'accertamento dei fatti operato dalla Corte territoriale).
Qualche riflessione in punto di diritto sulla motivazione della sentenza.
Ci sembra proprio che questo assunto della Corte di legittimità, che si colloca armonicamente nella linea di pensiero già espressa dal supremo magistero giurisprudenziale, meriti di essere in toto condiviso, fondandosi su validi criteri interpretativi.
A nostro modesto avviso, infatti, se il fatto-comportamento contestato al lavoratore, per il suo carattere fraudolento e, nella specie, come rileva la sentenza, evidenziante palesemente il dolo e la premeditazione, è di tale intrinseca gravità da ledere irrimediabilmente ed irreversibilmente, in sè e per sè oggettivamente e soggettivamente considerato, il rapporto fiduciario e da porre in dubbio ogni possibilità del prestatore di comportarsi in futuro correttamente, non vi è dubbio che il comportamento stesso realizzi già, di per sè, pienamente il paradigma normativo dell'art.2119 del codice civile, in quanto saremmo in presenza di "una causa" talmente grave da non consentire "la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto". E' chiaro, pertanto, che elementi, quali la modesta entità del danno e la mancanza di precedenti disciplinari, siano da considerarsi circostanze attenuanti del tutto irrilevanti, risultando il richiamato modello normativo già integralmente realizzato dal comportamento oggettivo e soggettivo del lavoratore.
A diversa conclusione dovrebbe, invece, pervenirsi (ed anche in ciò sentiamo di essere in piena sintonia con il magistero della Suprema Corte), ove il fatto, pur costituendo un addebito di rilevante gravità, non sia, di per sé, idoneo a compromettere irrimediabilmente, anche per il futuro, l'elemento fiduciario. In tal caso sarebbe, infatti, consentito al datore unicamente l'esercizio del potere disciplinare in senso conservativo, a meno che il datore possa addurre, a carico del lavoratore, dei precedenti disciplinari, legittimamente sanzionati nel biennio anteriore all'ultimo fatto contestato, che, valutati contestualmente al fatto stesso, inducano a formulare un giudizio di totale irrimediabile compromissione dell'elemento fiduciario.
E'chiaro che, in tale ultima ipotesi, la consapevolezza, in capo al lavoratore, di aver causato un danno tutt'altro che tenue, così come la presenza, a carico dello stesso, di eventuali precedenti disciplinari, avrebbero una loro incidenza aggravante nell'economia della valutazione della fattispecie in termini di lesione della fiducia, proprio perché, stante l'inidoneità del comportamento, in sè e per sè considerato nei suoi elementi oggettivi e soggettivi, alla irrimediabile lesione del rapporto fiduciario, si manifesta la necessità di utilizzare, se mai vi siano, ulteriori elementi idonei a conferire al medesimo quella maggiore gravità della responsabilità disciplinare del lavoratore richiesta ai fini dell'adozione del provvedimento espulsivo.
Concordiamo, infine, con la linea di pensiero espressa nel suo insegnamento dalla Corte di legittimità nel ritenere che la mancata attivazione, da parte datoriale, di un procedimento penale in relazione al fatto contestato non sia elemento suscettibile di incidere in modo determinante o, comunque, apprezzabile sulla valutazione da operare in merito al fatto stesso, potendo essere tale elemento correlato anche a valutazioni di convenienza da parte datoriale e trattandosi di aspetto che lascia, comunque, immutata la gravità intrinseca del comportamento del lavoratore, anche se esso dev'essere, altresì, valutato alla luce della gravità del fatto addebitato sul piano penalistico;
E, per concludere, un quadro riassuntivo di punti-luce in materia di "giusta causa".
Dopo esserci intrattenuti sulla motivazione della sentenza de qua per illustrare e sviluppare le argomentazioni da essa svolte, desideriamo concludere questo nostro intervento fornendo ai lettori una succinta e, riteniamo, sempre utile rivisitazione di quelle che sono un po' le linee-guida, che possono ormai considerarsi punti fermi del pensiero dottrinale e giurisprudenziale in subiecta materia:
a)
la giusta causa, che è presupposto di legittimità del licenziamento senza preavviso (e, cioè, con effetto immediato, il c.d. licenziamento in tronco), ai sensi dell'art.2119 del codice civile, è, secondo la formulazione del modello normativo, una causa che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro (a differenza, invece, del licenziamento per giustificato motivo soggettivo e del licenziamento per giustificato motivo obiettivo, che, ai sensi dell'art 3 della legge 15 luglio 1966 n.604 sulla disciplina dei licenziamenti individuali, sono, ambedue, ipotesi di risoluzione del rapporto di lavoro con preavviso);
b)
secondo la ricostruzione logico-sistematica operata dall'elaborazione del pensiero dottrinale e giurisprudenziale, la giusta causa, in applicazione del summenzionato art.2119 del codice civile, si sostanzia in un comportamento imputabile a colpa del lavoratore e talmente grave da ledere irrimediabilmente ed irreversibilmente, anche per il futuro, quella fiducia che ogni datore di lavoro deve poter riporre nei propri collaboratori subordinati e da non poter proseguire il rapporto di lavoro neppure provvisoriamente.
Non può, pertanto, essere ricondotto nell'ambito della giusta causa un fatto che, pur potendo, sul piano fattuale, impedire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro, non sia imputabile a colpa del lavoratore (si pensi ad un fatto naturale, che provochi la materiale distruzione dell'impresa, come, ad es., un attentato, un incendio, un terremoto o altro evento che renda completamente inutilizzabile l'intera struttura amministrativa e produttiva dell'impresa, fatto, questo, che non potrebbe che costituire il presupposto giuridico per l'adozione di un licenziamento dei dipendenti interessati per giustificato motivo obiettivo, che, come già osservato, è un caso di risoluzione del rapporto di lavoro con preavviso);
c)
la giusta causa, oltre a concretizzarsi in un fatto di estrema gravità imputabile a colpa del lavoratore, a differenza di quanto avviene per il giustificato motivo di carattere soggettivo, può anche sostanziarsi in un comportamento che nulla ha a che vedere con l'inadempimento, da parte del prestatore, di uno degli obblighi su di lui contrattualmente gravanti come lavoratore subordinato, ben potendo consistere anche in un comportamento che, seppur estraneo al rapporto di lavoro, per come si riflette sul giudizio che si può operare della persona sul piano della correttezza ed onestà o della sua pericolosità nei rapporti sociali ed anche in azienda, nonchè per la correlazione con il tipo di mansioni svolte, consenta al datore di poter ugualmente formulare una valutazione in termini di totale compromissione, anche per il futuro, del rapporto fiduciario.
Si pensi, tanto per addurre un caso professionalmente vissuto, da chi scrive, come avvocato datoriale, al lavoratore, oltretutto con responsabilità di maneggio denaro, che, pur essendo considerato, all'interno dell'azienda, un dipendente modello per la sua correttezza, capacità e diligenza, è oggetto, in gran segreto, di un'indagine di polizia, che poi accerta e prova ch'egli da qualche anno opera, all'esterno dell'azienda, come spacciatore di droga, facente capo, oltretutto, ad una pericolosa organizzazione criminale. E' sin troppo evidente che siamo in presenza di persona che, seppur come dipendente non sia censurabile sotto alcun punto di vista, ha, però, tenuto un comportamento di tale gravità da aver compromesso irrimediabilmente quella fiducia che il datore avrebbe dovuto poter riporre in lui, vuoi per la gravità del fatto sul piano penalistico, vuoi per la situazione di allarme sociale che il fatto stesso ha suscitato e non soltanto nella città ove aveva sede l'azienda, vuoi anche perché il fatto era ormai di dominio pubblico, persino all'interno dell'azienda, vuoi, infine, per i riflessi e le conseguenze negative che avrebbero potuto prodursi (e non si sa se non si siano in qualche misura prodotte!) all'interno dell'azienda stessa, un soggetto, insomma, al quale non poteva certo essere conservato un minuto di più il posto di lavoro….;
d)
se il fatto addebitato, per la rilevante gravità dell'inadempienza e per le modalità del suo manifestarsi, che lo caratterizzano come palesemente doloso, fraudolento e premeditato, è di per sè, idoneo a compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario ed a porre pienamente in dubbio la futura correttezza del lavoratore, a nulla varrebbe, per il lavoratore, invocare l'assenza a suo carico di precedenti disciplinari e/o la tenuità del danno da esso arrecato al datore quali circostanze attenuanti la gravità del fatto, avendo già, di per sè, il comportamento contestato la capacità di realizzare, nei suoi elementi oggettivi e soggettivi, il paradigma normativo, di cui all'art.2119 del codice civile;
e)
ove, invece, il comportamento del lavoratore, per il tipo di condotta posta in essere o per le sue modalità di manifestazione, non sia stimabile di gravità tale da menomare irrimediabilmente il rapporto fiduciario (come nei casi di non rilevante insubordinazione, inadempienza non particolarmente grave, assenza di dolo o premeditazione, colpevolezza dell'autore non particolarmente intensa o nei casi in cui il prestatore abbia agito per semplice leggerezza o distrazione o stanchezza o provocazione o inganno o malore, ecc.), è chiaro che il medesimo non realizza, di per sè, il modello normativo, di cui all'art.2119 del codice civile, per cui il comportamento stesso non potrà condurre all'adozione di provvedimenti espulsivi, ma potrà dal datore essere sanzionato unicamente con l'adozione di provvedimenti disciplinari conservativi, in conformità a quanto previsto dall'art.7 della legge 20 maggio 1970 n.300;
f)
in relazione a quanto esposto nel precedente punto e), val la pena, però, di tenere presente che, nel caso di addebito al lavoratore di un comportamento del tipo di quello descritto nel precedente punto e), o di addebito indubbiamente di rilevante gravità, ma di cui sia incerta o non facilmente provabile l'idoneità a menomare irrimediabilmente, anche per il futuro, il rapporto fiduciario, la magistratura del lavoro tende a riconoscere la legittimità del provvedimento espulsivo soltanto ove emerga che ad esso il datore si sia determinato tenendo conto anche di fatti disciplinarmente rilevanti (regolarmente sanzionati) in cui sia incorso il lavoratore nell'arco del biennio precedente, sul presupposto che, anche un comportamento non di massima gravità, se valutato nel contesto di una pluralità di recidive del lavoratore in inadempimenti o illeciti (che hanno condotto ad una serie di sanzioni conservative progressivamente più pesanti), renda ben più grave la responsabilità disciplinare del lavoratore, inducendo a ritenere che possa essere venuta gradualmente meno quella fiducia, che si dovrebbe poter riporre in lui.
Quanto sopra, sia perché il licenziamento per giusta causa rappresenta la reazione datoriale nei confronti di un lavoratore nel quale, per effetto di un solo addebito o di una serie di addebiti, non si possa più riporre, anche per l'avvenire, alcuna fiducia, sia in applicazione del generale principio di proporzionalità tra gravità del comportamento contestato ed entità della sanzione, statuito dall'art.2106, primo comma, del codice civile ed applicabile a tutti i provvedimenti di natura disciplinare.
Richiamiamo, pertanto, l'attenzione sull'opportunità che, nell'ipotesi dianzi descritta, da parte datoriale si proceda all'adozione di provvedimenti espulsivi unicamente in presenza delle richiamate condizioni;
g)
l'entità del danno causato dal lavoratore al datore con il suo comportamento, mentre non può esercitare alcuna incidenza nell'economia della valutazione della gravità della fattispecie nel caso di comportamento descritto al punto d), nell'ipotesi di comportamento non di per sè concretante irrimediabile lesione del rapporto fiduciario, può, invece, senz'altro porsi come elemento idoneo a contribuire, anche in concorso con altre circostanze, a colorare di maggiore o minore gravità il fatto contestato;
h)
per quanto concerne l'aspetto della attivazione o meno di un procedimento penale in relazione al fatto contestato (quando esso, ovviamente, inerisse ad un comportamento di rilevanza penalistica), ci riportiamo alle considerazioni già in precedenza svolte.
Confermiamo, in proposito, di concordare con la linea di pensiero espressa dalla Corte di legittimità nel ritenere che la mancata attivazione, da parte datoriale, di un procedimento penale in relazione al fatto contestato non sia elemento suscettibile di incidere in modo determinante o, comunque, apprezzabile sulla valutazione da operare in merito al fatto stesso, potendo essere tale elemento correlato anche a valutazioni di convenienza da parte datoriale e trattandosi di aspetto che lascia, comunque, immutata la gravità intrinseca del comportamento del lavoratore (per cui, anche se il discorso dell'incidenza dell'elemento in questione è molto legato alla tipologia delle singole fattispecie, alla gravità del reato posto in essere ed all'intensità del dolo, il ruolo che detto elemento potrebbe giocare nel quadro delle valutazioni della storia disciplinare del lavoratore, si appalesa, tutto sommato, se non irrilevante, certo non primario e, sempre, comunque, come già rilevato, di nessuna incidenza, ove, come nel caso di cui alla sentenza commentata, il fatto addebitato sia già, di per sè, irrimediabilmente lesivo dell'elemento fiduciario);
i)
la sussistenza della giusta causa dev'essere accertata valutando il comportamento contestato al lavoratore alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, al fine di determinare se il comportamento stesso, fotografato nei suoi elementi costitutivi e nella sua dinamica di svolgimento, anche per la intensità del dolo o della colpevolezza quali desumibili dalle modalità del suo concreto manifestarsi, è idoneo a compromettere irrimediabilmente, anche per il futuro, il rapporto fiduciario.
In tale ottica giova sottolineare che tutte quelle clausole della contrattazione collettiva, che prevedono che determinate tipologie di comportamento, astrattamente e genericamente individuate, possano essere sanzionate con il licenziamento per giusta causa, hanno valenza meramente esemplificativa (a volte è la stessa contrattazione collettiva a precisarlo), dovendo il datore di lavoro provare che, non quel tipo di comportamento astrattamente individuato, ma il comportamento analiticamente descritto nella lettera di contestazione, per come si è realmente manifestato nel contesto di tutte le circostanze del caso concreto e per l'intensità del dolo o della colpevolezza che da esso si desume, ha prodotto irreparabilmente la lesione dell'elemento "fiducia".
In caso contrario, dovrebbe ammettersi la possibilità di una giusta causa "presunta", ciò che si porrebbe in contrasto non solo con il modello normativo dell'art.2119 del codice civile così come consegnatoci dalla tradizione giuridica (è bene sottolineare a chiare note che non esiste nulla di presunto nel diritto del lavoro e, quindi, neppure il giustificato motivo soggettivo od oggettivo "presunti"), ma anche con il principio cardine dell'ordinamento giuslavoristico italiano della rilevanza giuridica del fatto.
Tanto per considerare, ancora una volta, una fattispecie, che ha coinvolto professionalmente e drammaticamente, alcuni anni or sono, l'autore di queste riflessioni, si pensi al caso di una giovane commessa operante in uno dei numerosi supermercati milanesi di una primaria società di livello nazionale della grande distribuzione con sede a Milano, che, rifiutata e malamente espulsa dalla sua famiglia per una maternità procuratale da un amico avversato dalla famiglia stessa e rifugiatasi presso il domicilio del padre del bambino, avendo subìto, oltre a minacce e vessazioni, anche la sottrazione dell'infante ad opera dei familiari cui lei lo aveva temporaneamente affidato, sull'orlo di una violentissima crisi depressiva, concepisce due tentativi di suicidio, sventati per un soffio dall'amico. La lavoratrice, in preda alla più cupa disperazione, implora il fidanzato di condurla temporaneamente lontano dalla città, in un luogo ove possa non avere più contatti con il mondo, minacciando, in caso contrario, di rimettere in atto i suoi propositi suicidi. La ragazza, che viene portata dal fidanzato sulle rive del lago di Como, per ben venti giorni non comunica, neppure telefonicamente, la sua assenza all'azienda, la quale, mediante azioni investigative intraprese per il tramite del servizio interno di vigilanza, sorprende i due mentre tornano a riva dopo una gita in barca su detto lago. L'azienda licenzia la commessa per giusta causa per effetto dell'assenza completamente ingiustificata di gran lunga superiore a quella di cinque giorni prevista dalla contrattazione collettiva (nella specie, per ben venti giorni!). A seguito di impugnativa del licenziamento, nonostante la società avesse cercato di enfatizzare la eccessiva gravità del comportamento di una lavoratrice che, per ben venti giorni, non dà alcun segno di vita, il giudice di prime cure, con una sentenza sapiente ed esemplare, ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento ed ordinato la reintegrazione nel posto di lavoro, in quanto il comportamento della dipendente era imputabile, con pieno nesso eziologico, esclusivamente allo stato di totale tracollo psico-fisico, prostrazione e disperazione in cui essa era caduta per le angherie e minacce subite dai familiari, stato che aveva privato completamente la medesima della capacità di intendere e di volere, della capacità, in una parola, di comprendere la portata degli atti che essa aveva posto in essere, per cui il comportamento della lavoratrice, difettando in esso ogni forma di dolo o di consapevolezza di operare in modo abnorme, non era certo idoneo a ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, soprattutto tenuto conto che, attraverso l'audizione di numerosi testi che il giudice ha voluto ad ogni costo escutere (direttore e vicedirettore di filiale, nonché numerose responsabili di reparto dell'unità in cui operava), si era appurato che la ricorrente doveva essere annoverata tra le migliori dipendenti di tutta l'area milanese per capacità professionale, correttezza, impegno ed abnegazione e che, proprio per questo, ha chiosato il magistrato, "era, anzi, persona degna che fosse riposta in lei la migliore fiducia"! Il giudice ha, appunto, avuto modo di rilevare nella sua sentenza che le ipotesi di giusta causa richiamate dalla contrattazione collettiva hanno valore meramente esemplificativo, dovendosi valutare, ai fini della sussistenza della giusta causa, il comportamento del prestatore alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, oggettive e personali del lavoratore, onde accertare se il medesimo, per gli elementi oggettivi della condotta e per la loro incidenza sull'intensità del dolo o della colpevolezza, sia idoneo a far considerare irrimediabilmente leso il rapporto fiduciario;
l)
dalla storia dell'esperienza giurisprudenziale si evince, sul piano dei dati statistici, che la magistratura del lavoro tende senz'altro a ricondurre nell'ambito della giusta causa quei comportamenti che presentano, per lo più, rilevanza penalistica (ovverosia previsti come reati), in considerazione della particolare pericolosità che può ritenersi presente nell'autore e della situazione di allarme sociale che essi causano e che fanno sì che la collettività statuale li abbia voluti presi in considerazione dalla legge penale.
Ove, invece, il lavoratore ponga in essere una inadempienza o violazione non costituente illecito penale, è certo necessaria un'analisi approfondita del comportamento contestato sul piano della sua gravità oggettiva e soggettiva in termini di idoneità a ledere, di per sé, irrimediabilmente il rapporto fiduciario.
Per il caso in cui il comportamento del lavoratore non sia, di per sè, irrimediabilmente lesivo del rapporto fiduciario, ci riportiamo, comunque, alle considerazioni svolte nei precedenti punti e) ed f);
m)
poiché il licenziamento per giusta causa, costituendo la più grave reazione datoriale avverso un comportamento colpevole del lavoratore, è da ricondursi nell'ambito dei provvedimenti disciplinari (tant'è vero che si parla di "licenziamento disciplinare"), anche al medesimo dovranno applicarsi i primi cinque commi dell'art.7 della legge 20 maggio 1970 n.300 (Statuto dei Lavoratori), che, principalmente, prevedono che il datore non possa adottare un provvedimento disciplinare più grave del rimprovero verbale se prima non siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa e se prima il lavoratore non sia stato sentito a sua difesa.
Com'è noto, al fine di rendere compatibile l'effetto della immediata risoluzione del rapporto di lavoro con l'esigenza del rispetto delle richiamate garanzie apprestate al lavoratore dalle summenzionate disposizioni, si ricorre, sul piano operativo, all'osservanza del seguente modus procedendi: 1) invio (o consegna brevi manu) al lavoratore della lettera di contestazione dell'addebito, con la quale 1.1) viene descritto il fatto in tutti i suoi elementi costitutivi e nella sua dinamica di svolgimento, con l'indicazione delle circostanze di tempo, di luogo e di persone inerenti il fatto stesso, 1.2) si avverte il lavoratore che ha cinque giorni di tempo, decorrenti dal giorno successivo a quello in cui ha ricevuto la lettera di contestazione, per far pervenire al datore le sue eventuali discolpe e 1.3) si dispone la sospensione del lavoratore, in via cautelativa, dalla prestazione sino all'adozione del provvedimento, fermo restando il suo diritto a percepire il normale trattamento retributivo durante il periodo di sospensione dal lavoro; 2) attesa, da parte datoriale, del ricevimento, entro cinque giorni decorrenti dal giorno successivo a quello in cui il lavoratore ha ricevuto la lettera di contestazione, della lettera contenente le giustificazioni eventualmente presentate da quest'ultimo, il quale, ove lo desideri, ha, comunque, nel rispetto del suddetto termine, il diritto di essere sentito dal datore anche verbalmente; 3) lettera con cui il datore, facendo seguito alla lettera di contestazione dell'addebito, valutate le singole discolpe ed esposte analiticamente le ragioni dell'eventuale mancato accoglimento delle stesse, adotta, trascorso il suddetto termine, il provvedimento di licenziamento con effetto immediato.
Giova solo rammentare che il licenziamento disciplinare non è impugnabile in base alla procedura prevista dall'art.7, commi sesto e settimo, per i provvedimenti disciplinari di natura conservativa, dovendosi osservare le norme ordinarie in materia di disciplina del contenzioso giudiziario del lavoro;
n)
per congedarci dal lettore, un consiglio operativo. Nel caso di notevole inadempimento, da parte del lavoratore, dei propri obblighi contrattuali, di cui sia, però, incerta, per svariati motivi, l'idoneità a concretare immediatamente giusta causa, ove si valutasse, da parte datoriale, la piena inadeguatezza della sanzione disciplinare di tipo conservativo in rapporto alla considerevole, rilevante gravità del fatto posto in essere dal prestatore (eventualmente valutato anche alla luce di altri precedenti disciplinari), sarebbe consigliabile che il datore di lavoro procedesse alla risoluzione del rapporto di lavoro per giustificato motivo soggettivo, nel cui ambito l'inadempienza stessa, in quanto notevole, potrebbe essere più facilmente ricondotta. Ove, infatti, il datore dovesse determinarsi, nell'ipotesi in questione, all'adozione del provvedimento di espulsione in tronco, il rischio di soccombenza del medesimo, nell'eventuale giudizio di impugnazione del provvedimento promosso dal lavoratore, sarebbe da considerarsi elevato. E' chiaro, naturalmente, che, costituendo il licenziamento per giustificato motivo soggettivo un caso di risoluzione del rapporto di lavoro con preavviso, il datore, ove si fosse determinato all'intimazione di tale provvedimento e non volesse consentire al prestatore di svolgere la sua attività durante il periodo di preavviso, dovrà estromettere con effetto immediato il prestatore stesso, corrispondendogli, però, l'indennità di mancato preavviso.
Avv. Prof. Stefano Lenghi
Testo della sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Civ. Lav. 18 settembre 2014, n. 19684
Svolgimento del processo
Con sentenza del 5-24.5.2011, la Corte d'Appello di Catania rigettò il gravame proposto da M.R. nei confronti della A. spa (nella quale si era fusa l'originaria datrice di lavoro I. srl) avverso la pronuncia di prime cure, che aveva respinto l'impugnazione del licenziamento irrigatole per giusta causa.
A sostegno del decisum la Corte territoriale osservò quanto segue:
- la prova testimoniale svolta in grado d'appello aveva pienamente confermato i fatti quali esposti dalla parte datoriale e, in particolare, che la lavoratrice si era resa responsabile, mediante un accorgimento fraudolento, di acquistare un capo di abbigliamento ad un prezzo inferiore a quello fissato nel talloncino;
- la sanzione del licenziamento non poteva ritenersi sproporzionata in relazione ai fatti contestati, poiché, a prescindere dal valore lieve del danno procurato all'azienda, era evidente la perdita di fiducia nella propria dipendente, che di per sé valeva come giusta causa per il licenziamento, essendo stato accertato che la M., profittando delle sue mansioni di addetta al reparto abbigliamento e ai camerini di prova, aveva intenzionalmente cambiato i talloncini segnaprezzo di due capi di abbigliamento, al fine di acquistare uno di essi con il prezzo minore, anziché al prezzo originariamente segnato.
Avverso la suddetta sentenza della Corte territoriale, M.R. ha proposto ricorso per cassazione fondato su due motivi e illustrato con memoria.
L'intimata A. spa ha resistito con controricorso, illustrato con memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione in ordine alla mancata ammissione delle prove testimoniali offerte da essa ricorrente e della richiesta CTU medico legale sulle sue condizioni di salute, con particolare riguardo alla dedotta situazione di soggetto gravemente ipovedente.
1.1 Il motivo è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza, non essendo stato riportato il contenuto dei capitoli di prova non ammessi, il che rende impossibile la valutazione Cass. della decisività delle circostanze dedotte, a fronte, peraltro, della puntuale spiegazione resa nella sentenza impugnata in ordine alle ragioni della mancata ammissione degli stessi.
Né, sempre in violazione del principio di autosufficienza, la ricorrente ha riportato in ricorso il contenuto della documentazione asseritamene prodotta e dimostrativa delle sue condizioni di salute; dovendo peraltro rilevarsi al riguardo, per completezza di motivazione, che lo svolgimento dei fatti, quali accertati e descritti nella sentenza impugnata, esclude di per sé che gli stessi possano essere stati effetto di una ridotta capacità visiva.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione in ordine al riconoscimento della sussistenza della giusta causa di licenziamento, assumendo che la Corte territoriale non aveva tenuto adeguatamente conto della modesta entità del danno, dell'assenza di precedenti disciplinari, delle precarie condizioni fisiche di essa ricorrente, della mancata attivazione di un procedimento penale in relazione al fatto contestato.
2.1 La motivazione della sentenza impugnata, nei termini diffusamente svolti nello storico di lite, è pienamente coerente con le circostanze esaminate ed immune da elementi di contraddittorietà, nel mentre le circostanze fattuali che si assumono non considerate o sono palesemente irrilevanti ai fini de quibus (asserita e non documentata assenza di sottoposizione a procedimento penale; condizioni di salute della lavoratrice) o, nell'ambito della valutazione complessiva dei fatti contestati, non assumono rilevanza decisiva ai fini dell'esclusione della giusta causa di recesso.
Ed invero, come questa Corte ha già avuto modo di osservare, la modesta entità del fatto può essere ritenuta non tanto con riferimento alla tenuità del danno patrimoniale, quanto in relazione all'eventuale tenuità del fatto oggettivo, sotto il profilo del valore sintomatico che lo stesso può assumere rispetto ai futuri comportamenti del lavoratore e quindi alla fiducia che nello stesso può nutrire l'azienda, essendo necessario al riguardo che i fatti addebitati rivestano il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e, specialmente, dell'elemento essenziale della fiducia, cosicché la condotta del dipendente sia idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento (cfr. ex plurimis, Cass., nn. 11806/1997; 5633/2001).
Alla luce di tali principi deve quindi essere condivisa la valutazione resa dalla Corte territoriale, poiché proprio il dimostrato carattere fraudolento, nella specie palesemente doloso e premeditato, della condotta della lavoratrice è sintomatico della sua, anche prospettica, inaffidabilità e, come tale, idoneo ad incidere in maniera grave ed irreversibile, nonostante la modesta entità del danno patrimoniale e la mancanza di precedenti disciplinari, sull'elemento fiduciario.
Anche il motivo all'esame va pertanto disatteso.
3. In definitiva il ricorso va rigettato.
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida in euro 3.100,00 (tremilacento), di cui euro 3.000,00 (tremila) per compenso, oltre accessori come per legge.