Dott.ssa Zulay Manganaro
Con sentenza n. 5347 del 29 ottobre 2014, la V sezione del Consiglio di Stato si pronuncia sull'errore di fatto idoneo a fondare una domanda di revocazione ai sensi degli artt. 395 cpc n. 4 e 106 ss. Cpa, esplicitando in cosa esso si sostanzi.
Si sostiene al capoverso 6.1 della sentenza che, per pacifica giurisprudenza (tanto della Cassazione che del Consiglio di Stato), l'errore di fatto idoneo a fondare tale mezzo di gravame, deve essere contraddistinto dal discendere da una "pura e semplice errata o mancata percezione del contenuto meramente materiale degli atti di giudizio, la quale abbia indotto l'organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato"; dall'essere attinente a un punto che non sia stato oggetto di controversia tra le parti e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; dall'esser stato un punto decisivo della decisione da revocare, rendendosi - perciò - necessario un rapporto di causalità tra la presupposizione errata e la pronuncia della stessa.
Aggiunge, ancora, il Consiglio di Stato che l'errore di fatto deve essere facilmente rilevabile e mostrarsi con immediatezza, senza dover ricorrere a interpretazioni ermeneutiche o argomentazioni induttive. In conseguenza di ciò, l'errore di fatto si sostanzia in una "svista o abbaglio dei sensi" che ha causato una percezione errata del contenuto degli atti del giudizio, acquisiti agli atti di causa nel rispetto dei canoni procedurali, stabilendo un contrasto, una divergenza tra due differenti "proiezioni dello stesso oggetto". Una discendente dalla sentenza
, l'altra, invece, dagli atti e dai documenti di causa. Trattasi, dunque, di errore che non riguarda e non deve neppure confondersi con l'errore che involve l'attività di valutazione del giudice, "costituendo il peculiare mezzo previsto dal legislatore per eliminare l'ostacolo materiale che si frappone tra la realtà del processo e la percezione che di essa ha avuto il giudicante, proprio a causa della svista o dell'abbaglio ai sensi".Nel codice di procedura civile
si distingue tra revocazione straordinaria, prevista ai nn. 1, 2, 3, 6 dell'art. 395 cpc e revocazione ordinaria. Quest'ultima trattata ai restanti nn. 4 e 5 della medesima norma. In quanto mezzo di impugnazione ordinaria, in dette due ipotesi, la revocazione condiziona il passaggio in giudicato della sentenza. La revocazione straordinaria, al contrario, può essere proposta indipendentemente dal giudicato formatosi sul provvedimento che con revocazione s'intende impugnare. E', in ogni caso, un mezzo di gravame cosiddetto a "critica vincolata" poiché può essere proposto esclusivamente nei casi elencati dalla norma medesima.La distinzione, si capisce, deriva dal fatto che i vizi su cui poggia la revocazione ordinaria si rilevano sulla base della sola sentenza; per converso, i vizi che fondano la revocazione straordinaria non sono rilevabili dal provvedimento che si suole impugnare, sono scoperti solo successivamente e si presentano quali vizi "occulti".
Le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione se, recita il numero 4 dell'art. 395 cpc: "la sentenza è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell'uno quanto nell'altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare".
Nella legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), si elencano al comma 3 dell'art. 2, quattro ipotesi tassative di colpa grave del magistrato. Le lettere b e c prevedono che - tra le altre - fattispecie di colpa grave perpetrata dal magistrato sia l'affermazione determinata da negligenza inescusabile di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente esclusa dagli atti di causa e viceversa.
La definizione si avvicina molto a quella appena ricordata del n. 4 ex art. 395 cpc.
Possiamo tenere presente che, in generale, nel diritto civile l'errore rappresenta un'anomalia nella formazione dell'autonomia privata e, di conseguenza, nel modo di regolare i relativi interessi.
Era già accaduto nel 2010 che il Consiglio di Stato si esprimesse riguardo l'errore di fatto revocatorio in questi termini: "L'orientamento di questo Consiglio è nel senso che la "svista" che autorizza e legittima la proposizione, ai sensi dell'art. 395, n. 4 c.p.c., del rimedio - straordinario e quindi eccezionale - della revocazione, è rappresentata o dalla mancata esatta percezione di atti di causa, ovvero dall'omessa statuizione su una censura o su una eccezione ritualmente introdotta nel dibattito processuale".
Con termini analoghi, ribadisce la sesta sezione con pronuncia n. 05857/2011: "L'errore di fatto revocatorio consiste in una falsa percezione della realtà processuale e cioè in una svista - obiettivamente ed immediatamente rilevabile - che abbia portato ad affermare (o soltanto supporre) l'esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti di causa ovvero la inesistenza di un fatto decisivo che dagli atti risulti invece positivamente accertato".
In quest'ultima sentenza sono messi in luce punti comuni evidenziati anche dalla più recente pronuncia per cui, ciò che consente di mettere in discussione quanto deciso dal giudice (il "decisum"), attraverso il rimedio straordinario della revocazione è solo quello che non implica attività valutativa dell'organo giudicante ma è, piuttosto, volto a eliminare l'ostacolo materiale che s' interpone tra la realtà del processo e l'intendimento che di detta realtà percepisca il giudice.
Trattasi di ostacolo discendente da una "pura e semplice errata, od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio", sempre che, come ricaviamo dalla lettera della disposizione il fatto oggetto dell'asserito errore non sia stato punto controverso sul quale la sentenza impugnata per revocazione ebbe a pronunciarsi. Ratio di questa specifica delimitazione è che la revocazione è, comunque, rimedio eccezionale che non debba essere trasformato in un ulteriore grado di giudizio.
Il Consiglio di Stato rievoca un principio pacifico, ripetuto attraverso la medesima espressione dalla sentenza 5347/2014, quello per cui l'errore di fatto che legittima il ricorso per revocazione deve consistere nel "c.d. abbaglio dei sensi, ossia in un travisamento dovuto a mera svista, che induca a considerare inesistenti circostanze indiscutibilmente esistenti, o viceversa".
In virtù di questo principio, l'errore di fatto revocatorio consiste in una falsa percezione della realtà processuale e cioè in una svista, una disattenzione o distrazione che sia rilevabile in maniera obiettiva e immediata che abbia condotto ad affermare o anche solo supporre come esistente un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti di causa o come inesistente un fatto decisivo la cui verità risulta positivamente accertata dagli atti stessi. In entrambe le ipotesi si richiede che il fatto non abbia costituito un punto controverso sul quale la pronuncia del giudice sia intervenuta, perché in questo caso si sconfina in un errore di diritto. Come accennato poc'anzi, su questo genere di errore la revocazione comporterebbe censura sulla valutazione e l'interpretazione delle risultanze processuali compiute dal giudice. In effetti, si tratterebbe di una domanda di revocazione fondata sull'erroneo apprezzamento dei risultati discendenti dal fatto stesso.
Il motivo fondamentale di questa distinzione e - allo stesso tempo - questa circoscrizione dell'ambito di applicazione dell'errore di fatto al cd. "abbaglio dei sensi" meglio si comprende se si torna a riflettere sulle radici della revocazione. Essa è, comunque, una impugnazione avente carattere eccezionale correlato ad alcune circostanze, ovvero gli stessi motivi su cui la revocazione è fondata, idonee a deragliare o viziare il giudizio talmente profondamente da poter presumere che eliminando la ragione che sul giudizio ha inciso, si possa cambiare anche l'orientamento del giudice.
Radici storiche della revocazione, rivelano che essa, in qualunque ordinamento sia conosciuta, si ispira a un insopprimibile bisogno di giustizia ed è volta a eliminare il "grave sintomo di ingiustizia" che ha colpito un giudizio.
Nel motivo di cui al numero 4 dell'art. 395 cpc (dunque il primo dei due motivi di revocazione ordinaria) poiché l'errore è subito evidente alla parte soccombente che conosce il contenuto degli atti di causa e dei documenti (si parla infatti di errore documentale di fatto), si potrà ricorrere a revocazione solo contro sentenze di secondo grado: sia qualora si tratti di sentenze d'appello, sia ove si abbiano sentenze di rinvio al giudice di appello nonché anche a fronte di sentenze della Corte di Cassazione, soprattutto quando decidano il merito. Quest'ultima possibilità è stata introdotta dall'art. 391 bis cpc attraverso la legge n. 353/1990, il quale ha a sua volta recepito un intervento della Consulta, per così dire, di carattere estensivo. Stiamo parlando della sentenza n. 17/1986 che ha esteso dapprima la revocazione ex n. 4 art. 395 cpc alle sole sentenze della Corte di Cassazione impugnate ai sensi del n. 4 dell'art. 360 cpc.
Nella stessa direzione si sono collocate successive sentenze della Corte Costituzionale, unanimi nel ritenere illegittima la limitazione al richiamo del solo n. 4 dell'art. 360 cpc. La legge 353/1990, pertanto, ha fatto suo questo orientamento con la conseguenza che la revocazione per errore di fatto è divenuta mezzo di impugnazione proponibile contro qualsiasi sentenza (o ordinanza) della Corte di Cassazione, indipendentemente dai motivi del ricorso.
In virtù del richiamo all'art. 375 cpc 1° c, ad opera dell'art. 391 bis ("Correzione degli errori materiali e revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione"), la Corte pronuncia in camera di consiglio, sia quando dichiara l'inammissibilità o l'improcedibilità del ricorso, sia quando debba decidere nel merito accogliendo o rigettando il ricorso, una volta revocata la sentenza. Cassazione n. 5715 del 2007 ha ritenuto quale motivo di revocazione per errore di fatto e non di ricorso per cassazione, l'omesso esame di un motivo di appello ritenuto non proposto espressamente ed erroneamente.
Il termine per proporre revocazione ordinaria ha la medesima decorrenza degli ordinari mezzi di impugnazione. E' previsto, perciò, un termine breve di trenta giorni che - come di consueto - decorre dalla notifica della sentenza viziata per i motivi di cui ai numeri 4 e 5 dell'art. 395 cpc; varrà il termine lungo semestrale, in assenza di notificazione, decorrente, invece, dal deposito della sentenza.
Per la revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione, il termine breve è di sessanta giorni; quello lungo - a dispetto della riforma attuata con la legge n. 69/2009 - è rimasto di un anno ("… ovvero di un anno dalla pubblicazione della sentenza stessa"), come ancora recita l'art. 391 bis.. Non è detto che non si tratti di una svista per cui è venuto a mancare il coordinamento di quest'ultima disposizione con l'art. 327 cpc. Ne consegue che nei casi in cui la Cassazione decide ai sensi dell'art. 384 cpc ("Enunciazione del principio di diritto e decisione della causa nel merito"), vale a dire pronuncia anche sul merito, il passaggio in giudicato della sua sentenza avverrà solo dopo la scadenza dei termini appena visti.
Per restringere la definizione di errore di fatto revocatorio, può essere utile tornare alla distinzione rispetto all'errore materiale, anch'esso non di giudizio bensì errore nella documentazione di un giudizio esatto. Il cosiddetto lapsus calami, emendabile grazie alla procedura di correzione prevista dagli artt. 287 ("Casi di correzione") ss. Cpc, in forza della quale non vi è né bisogno né possibilità di impugnazione. L'errore materiale è di per sé un errore emergente dalla stessa lettura della sentenza. Non vi è occorrenza alcuna di ricorrere a un confronto con altri documenti, mentre l'errore documentale di fatto (revocatorio) cade su un fatto. Non su un fatto qualunque. Come già visto in precedenza, esso è costituito da un errore di percezione relativo a un dato di fatto innegabile, incontestabile, fornito dal contenuto letterale e semantico dei documenti scritti, che il giudice ha semplicemente letto male oppure ha ricordato in maniera inesatta, nel momento in cui si è trovato pronto a dare forma alla sua decisione, che così scaturisce in maniera difforme e fuorviata.
Le parti possono sì facilmente individuare questo errore (e il Consiglio di Stato ribadisce che esso deve essere facilmente e immediatamente rilevabile) ma per poterlo fare devono tenere conto dei documenti di causa.
L'errore di fatto revocatorio, similmente all'errore materiale menzionato assieme al primo nell'art. 391 bis cpc, si risolve in un errore banale, in una "brutale svista" (per usare le parole del CONSOLO) che appartiene alla sfera della percezione, ossia alla sfera sensoriale. Non deve avere a che fare con il ragionamento. Deve consistere in un errore commesso in sede di lettura, o in una defaillance della memoria, in cui qualunque giudice può incappare senza neppure rendersene conto.
E, per finire, non deve certo riguardare un errore sul giudizio di valutazione che darebbe adito ad un motivo di appello.
E' stato da più parti osservato che questo motivo di revocazione avrebbe potuto dar luogo a una procedura di rettifica, come previsto per l'errore materiale, anziché a un vero e proprio mezzo di impugnazione, magari con apposizione di un termine finale.
Difficilmente vi si fa ricorso, dal momento che i suoi confini ben ristretti, non portano quasi mai al risultato sperato da chi il n. 4 dell'art. 395 cpc invoca.
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