di Paolo M. Storani - (2^ puntata di Salvis iuribus) Quando ai convegni parlo di metafore il pensiero vola a Mario Ruoppolo de Il Postino, il meraviglioso personaggio creato dal genio immenso ed immortale di Massimo Troisi che, è il 1994, nel passo d'addio alla carriera cinematografica ed alla vita, volle essere diretto da Michael Radford sul soggetto di Antonio Skàrmeta (e Scarpelli); i dialoghi con Pablo Neruda (Don Pabbblo) - Philippe Noiret sono storia del cinema. Troisi morì appena dodici ore dopo la fine delle riprese, nel corso delle quali utilizzò una controfigura per le scene più faticose: il suo cuore grondante sensibilità era ormai esausto.
"Nel mondo del diritto l'uso delle metafore si incontra con la tecnica della fictio iuris, largamente praticata dal praetor romano, che consisteva nel fingere come vera, per i fini propri del diritto, una proposizione non vera alla stregua della realtà": sono parole di Francesco Galgano, tratte dall'agile volumetto Le insidie del linguaggio giuridico, edito da Il Mulino nel 2010.
L'autore, avvocato e professore eccelso comparso il 6 febbraio 2012 in quella sua Bologna che l'aveva accolto, è per noi appassionati del diritto una stella di prima grandezza.
Ecco un esempio che dà di fictio iuris: "il cittadino romano caduto prigioniero del nemico perdeva, per ius civile, la cittadinanza romana.
Ma il ius praetorium introdusse una fictio: se il prigioniero fuggiva e tornava a Roma, si fingeva che non fosse mai caduto in mani nemiche".Altro esempio: "nel Medioevo i mercanti assoggettavano al proprio diritto i non mercanti statuendo che chiunque trattasse con essi fingitur mercator. Il nesso fra metafora e fictio iuris sta nel fatto che anche la seconda si basa su un come se".
Lo stesso fondamentale costrutto di persona giuridica nacque per metafora.
Siamo nel Trecento e Bartolo da Sassoferrato discetta in latino: "Universitas proprie non est persona, tamen hoc est fictum positum pro vero, sicut ponimus nos iuristae".
Bartolo fa questo ragionamento: in senso tecnico-giuridico soltanto gli esseri umani sono (sarebbero) persone, ma, se ci spostiamo dal dato naturale a quello giuridico, si può concepire una collettività organizzata, oggi diremmo una società, un'azienda, come se fosse una persona umana: è una finzione creata dal giurista, che vale solo nel mondo del diritto.
La finzione giuridica è il frutto di un'operazione dell'intelletto, soggiunge l'allievo di Bartolo, Baldo de Ubaldis: "immago quaedam quae magis intellectu quam sensu percepitur".
Oggi Baldo degli Ubaldi è una stazione della linea A della metropolitana di Roma che dista pochissimo dal capolinea di Battistini, ma fino all'anno 1440, epoca in cui morì a Pavia, fu un giurista di livello stratosferico (ed anche un frate minore), professore di diritto presso gli atenei di Bologna, Perugia, Pisa, Firenze, Padova e, per l'appunto, Pavia. Era consulente giuridico del Papa Urbano VI.
Le universitates sono nomina iuris, vale a dire concetti giuridici: per esprimere il concetto di diritto commerciale equivalente alla moderna responsabilità limitata si dice in Ulpiano: "quod universitati debetur singulis non debetur".
Ulpiano è l'autore numericamente più menzionato nel Digesto, la monumentale compilazione di libri di frammenti di opere di giuristi romani cui pose mano l'imperatore Giustiniano.
Senza questa opera di immenso valore la nostra cultura giuridica sarebbe ben poca cosa.
Il ministro della Giustizia di allora non era Andrea Orlando, bensì Triboniano, quaestor palatii, che formò una commissione composta da eminenti avvocati e professori universitari con l'obiettivo immane di selezionare e conservare l'incredibile produzione giurisprudenziale del mondo romano.
Il 16 dicembre 533 nasce il diritto modernamente inteso con la promulgazione e l'entrata in vigore del Corpus iuris civilis, decorsi quindici giorni; del testo di legge saranno consentite le traduzioni in lingua greca.
Appuntamento a domani per la terza puntata, se vi va, tenendo a mente l'aforisma di Voltaire, secondo cui ogni legge deve essere chiara, unitaria e precisa: interpretarla significa quasi sempre rovinarla.