Nel corso di una lite per questioni economiche, volano parole pesanti, e uno dei due litiganti dice all'altro "i soldi te li faccio uscire dal c…o" finendo condannato per minaccia.
Ma l'uomo non ci sta e impugna la sentenza del giudice di pace di Messina di fronte alla Suprema Corte. Il provvedimento, infatti, sarebbe, a sua detta, assolutamente privo di motivazione, poiché il giudice avrebbe ritenuto sussistente il reato sulla base delle dichiarazioni di un testimone senza indicare né valutare gli elementi probatori documentali e soprattutto senza un'analisi approfondita degli elementi costitutivi del reato.
Per gli Ermellini, l'uomo ha ragione.
"Il giudice - ha affermato, infatti, la quinta sezione penale della Cassazione, nella sentenza n. 1221 del 13 gennaio scorso - non può limitarsi a dire che una certa frase minacciosa (senza spiegare perché assuma tale natura) è stata sentita dal testimone, senza soffermarsi anche sugli elementi costitutivi del reato, e cioè sulla natura minacciosa della frase e sull'elemento soggettivo del reato". A maggior ragione, ha aggiunto la S.C., nel caso di specie, "in cui la frase ed il contesto non rendono così evidente tale natura".
Per cui, la sentenza va annullata con rinvio al giudice di pace per nuovo esame e con invito, ha concluso la Cassazione, a "motivare adeguatamente le proprie conclusioni, non potendosi limitare al richiamo delle fonti di prova, senza alcuna valutazione giuridica sugli elementi costitutivi del reato contestato".
Cassazione Penale, testo sentenza 13 gennaio 2015, n. 1221