Di Laura Tirloni -
La prima teoria criminologica in ambito psicodinamico di una certa rilevanza riguarda Sigmund Freud, che si dedicò allo studio dei cosiddetti "criminali per senso di colpa".
Secondo l'autore, in ogni individuo agiscono due tipi di pulsioni: la pulsione di vita (Eros), comprendente libido e pulsione di autoconservazione, e pulsione di morte (Thanatos), che si esprime sotto forma di ambivalenza, angoscia e senso di colpa.
Nel 1916 Freud scrive un paragrafo dal titolo: "Criminali per senso di colpa", in cui descrive che nel corso del trattamento psicoanalitico, alcune persone, diventate in gran parte rispettabili, gli confidarono di aver compiuto, nel periodo precedente la pubertà, azioni criminali quali furti, truffe e persino incendi dolosi.
Secondo Freud alcuni individui, attraverso l'atto delittuoso, ricercherebbero una punizione, come sollievo ad un forte senso di colpa che provano nel profondo, derivante da un irrisolto conflitto edipico.
Altro importante pensiero è quello di Alfred Adler, allievo di Freud, il quale considera fondamentali le componenti di "autoaffermazione" e "volontà di potenza" nel permettere all'individuo di superare i propri sentimenti di inferiorità, derivanti da fattori individuali o ambientali.
Questi contributi sono stati utilizzati in criminologia dal sociologo tedesco Karl Mannheim, il quale sostiene che "un complesso di inferiorità può indurre a compiere un delitto, nel tentativo di attirare l'attenzione su di sé, in senso compensatorio rispetto al sottostante senso di inferiorità. Per molti individui questa può apparire come l'unica possibilità di conquistare la ribalta dell'attenzione pubblica, cosa che essi desiderano ardentemente per alimentare la fragilissima stima in se stessi.
Lo psicoanalista Theodor Reik, condivide la tesi di Freud sui "criminali per senso di colpa" e nel saggio riguardante la coazione a confessare, sottolinea l'importanza del metodo psicoanalitico per la soluzione di problemi criminologici.
L'autore evidenzia come l'impulso a confessare possa nascondersi dietro eventi di "dimenticanza" e "trascuratezza", che lascerebbero trapelare indizi utili per essere smascherati.
Il delitto, come si sa, è un evento fortemente traumatico, mai completamente superabile. Il periodo che intercorre tra la commissione di un reato e la confessione vera e propria, è occupato dal marcato conflitto tra il tentativo di nascondere l'evento delittuoso alla propria coscienza e la tendenza opposta ad ammetterlo. A volte possono trascorrere diversi anni prima che il criminale possa rendersi conto fino in fondo di ciò che ha commesso e del motivo del suo gesto.
ll criminale che confessa sta esprimendo la volontà di liberare la propria coscienza da un insostenibile senso di colpa. Una confessione attraverso la quale il delinquente dimostra l'intenzione di rientrare nella comunità, dalla quale egli stesso si era espulso col suo atto, dichiarandosi meritevole di castigo.
Alcuni serial-killer, subito dopo la cattura, tendono a confessare, senza alcuna esitazione, i delitti che hanno commesso. Reik (1945) sostiene che questo gesto abbia una funzione masochistica in quanto il Super-Io del reo vuole autodanneggiarsi per espiare le colpe della persona. Parallelamente la confessione è anche un momento di piacere. Piacere che scaturisce dal rivivere le sensazioni di ebbrezza e di eccitazione generate dall'omicidio stesso.