Avv. Stefania A. Pedà- In questi giorni è al vaglio del Parlamento la proposta di legge rubricata "Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale, al codice di procedura penale e al codice di procedura civile in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante nonché di segreto professionale. Ulteriori disposizioni a tutela del soggetto diffamato".
Tassello dopo tassello, la libertà di stampa rischia di rimanere un concetto etereo, cimelio vintage dell'età dei nostri Padri Costituenti, mentre il legislatore compone un percorso ad ostacoli, in cui il giornalista (o in generale chiunque voglia informare) è condotto a doversi preoccupare più di trovare un buon avvocato che una buona ispirazione per la stesura di un articolo.
A onor del vero, la proposta di legge introduce alcune modifiche ragionevoli.
Innanzitutto prevede l'eliminazione della pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa.
Viene, altresì, introdotto l'obbligo da parte del direttore responsabile di informare l'autore dell'articolo della richiesta di rettifica: potrebbe, infatti, accadere che l'articolista voglia pubblicare una rettifica o smentita, mentre il direttore si opponga a tale richiesta. In questo modo si scinde la responsabilità solidale tra autore dell'articolo e direttore della testata, prevedendo la responsabilità solo di chi effettivamente ha voluto la pubblicazione dell'articolo nelle forme ritenute diffamatorie.
In tema di prescrizione del diritto entro cui esercitare l'azione civile di risarcimento del danno derivante da diffamazione a mezzo stampa, i termini vengono ridotti a due anni, mentre, in ambito penale, è previsto che la pubblicazione della rettifica nei termini prescritti faccia venir meno la punibilità del reato.
La proposta di legge contempla, altresì, un'estensione del segreto professionale di cui all'art. 200 c.p.p. non solo ai giornalisti professionisti iscritti all'albo, ma anche ai giornalisti pubblicisti.
In seno alla proposta, tuttavia, vi sono delle previsioni che condurrebbero allo svilimento dell'esercizio della libertà di espressione e di cronaca.
Ed infatti, viene precettato l'obbligo di pubblicare la rettifica "sic et simpliciter", così come voluta da chi si pretende diffamato, senza possibilità per il giornalista di intervenire sulle richieste di rettifica pervenute e senza che lo stesso possa replicare o esprimere un commento. L'obbligo è ancora più restrittivo per le testate on line, sulle quali la pubblicazione della rettifica dovrebbe avvenire entro due giorni dalla richiesta.
E' previsto, altresì, che il direttore o il vicedirettore responsabile possa delegare le funzioni di controllo ad uno o più giornalisti professionisti: ciò si concreterebbe realisticamente in uno "scaricare" la responsabilità giuridica sulle spalle magari di giovani giornalisti. Inoltre, viene introdotta la figura del redattore "giuridicamente responsabile", una sorta di censore degli altrui articoli allo scopo di evitare querele.
E' anche prevista la responsabilità personale del direttore o del vicedirettore per gli scritti o servizi radiotelevisivi non firmati, configurando, in tal modo, una forma di reponsabilità oggettiva.
Estrema novità della riforma sarebbe l'introduzione del diritto all'oblio. Ed infatti, l'interessato potrebbe chiedere l'eliminazione dai siti internet e dai motori di ricerca dei contenuti considerati diffamatori.
La disposizione, così come formulata, non può che lasciare con qualche perplessità. Dottrina e giurisprudenza si sono poste negli anni una serie di interrogativi sul diritto all'oblio e non sembra opportuno introdurlo "dalla finestra" senza far partecipare alla discussione le Autorità garanti in materia e prevedendolo, peraltro, anche in una fase ex ante, vale a dire prima che la diffamazione venga accertata giudizialmente.
All'esito di questa breve disamina sulle novità che potrebbe introdurre la riforma, appare evidente che, alla tutela riservata al preteso diffamato, non corrisponde un'altrettanta previsione di tutela nei confronti del giornalista.
Ed infatti, nulla è stato disposto in merito al fenomeno ormai dilagante delle querele e/o azioni civili temerarie.
Occorre considerare che azioni di questo tipo, anche se si dovessero concludere con l'archiviazione o l'assoluzione, ovvero con il rigetto della domanda a favore del giornalista, indubbiamente producono "ex se" un effetto deterrente e/o intimidatorio.
Di recente è accaduto che un magistato abbia chiesto un risarcimento di mezzo milione di euro al giovane giornalista di inchiesta Claudio Cordova per il contenuto asseritamente diffamatorio di due articoli. Senza, peraltro, chiedere una rettifica o indicare le parti che siano state considerate lesive dell'onore e della reputazione.
Libertà di cronaca e tutela del cittadino sono due principi di pari grado ed il legislatore deve lavorare affinchè il diritto porti ad un equilibrio tra i due e non punti, tristemente, al prevalere dell'uno sull'altro.
Considerato il tenore della riforma, palesemente claudicante, sarebbe auspicabile una previsione che portasse ad una "responsabilizzazione" anche del preteso diffamato, in modo tale che lo stesso possa avanzare le proprie pretese in maniera consapevole, non azionate dagli impulsi del momento e senza abusare degli strumenti che il sistema giudiziario fornisce.
La "sentenza decalogo" della Cassazione (sent. 18 ottobre 1984, n. 5259), croce e delizia dei giornalisti, ha sì previsto la risalcibilità in sede civile della diffamazione a mezzo stampa, ma ha anche individuato delle linee guida che contemperano il diritto all'informazione con il diritto a non vedere lesa la propria reputazione.
Affermava così la Cassazione nel 1984: "Ciò posto, va ricordato che - come ormai la giurisprudenza di questa Corte ha più volte avuto occasione di precisare, sia in sede civile che penale - il diritto di stampa (cioè la libertà di diffondere attraverso la stampa notizie e commenti) sancito in linea di principio nell'art. 21 Cost. e regolato fondamentalmente nella l. 8 febbraio 1948 n. 47, è legittimo quando concorrano le seguenti tre condizioni: 1) utilità sociale dell'informazione; 2) verità (oggettiva o anche soltanto putativa purché, in quest'ultimo caso, frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti; 3) forma "civile" della esposizione dei fatti e della loro valutazione: cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, sì da non essere mai consentita l'offesa triviale o irridente i più umani sentimenti."
Sarebbe, pertanto, auspicabile che le riforme in temi così delicati non tendessero al rafforzamento di una posizione a scapito dell'altra, ma aspirassero al bilanciamento di ciascun valore costituzionalmente tutelato.
Avv. Stefania A. Pedà - Foro di Reggio Calabria
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