Prof. Luigino Sergio - La Corte Costituzionale appartiene al novero degli organi costituzionali, i quali «concorrono a delineare il volto stesso del nostro ordinamento costituzionale; mentre i secondi, pur previsti dalla Costituzione, non possono dirsi necessari, ad es. il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro».
La Costituzione disciplina la Corte Costituzionale negli artt. 124-137; mentre sono molte le disposizioni extra costituzionali che riguardano il giudice delle leggi.
Ai sensi dell'art. 134 Cost.: «la Corte Costituzionale giudica sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni; sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni e tra le Regioni; sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica a norma della Costituzione.
Oggetto del controllo sono anche le leggi di rango costituzionale e pure i decreti legge.
Un atto normativo può essere valido ovvero conforme alle norme oppure può essere costituzionalmente illegittimo allorquando palesa vizi formali o vizi sostanziali.
I primi ossia i vizi formali si determinano quando un atto legislativo non è rispettoso del procedimento di formazione oppure manchevole nella forma di pubblicazione; i secondi vale a dire i vizi sostanziali riguardano il contenuto di un atto normativo e cioè quando esso è lesivo della disciplina costituzionale oppure quando evidenzia vizi per incompetenza; ma un atto normativo può essere viziato anche per irragionevolezza della legge.
L'accesso al giudizio di legittimità costituzionale contempla due possibilità:
- l'accesso in via d'azione da parte dello Stato che è previsto dall'art. 127 Cost., il quale dispone che: «il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte Costituzionale entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione; la Regione, quando ritenga che una legge o un atto avente valore di legge dello Stato o di un'altra Regione leda la sua sfera di competenza, può promuovere la questione di legittimità costituzionale
dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge o dell'atto avente valore di legge»;- l'accesso in via incidentale che è quello prevista dalla L. Cost. n. 1/1948, art. 1, il quale prevede che: «la questione d'illegittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge della Repubblica, rilevata d'ufficio o sollevata da una delle parti nel corso di un giudizio e non ritenuta dal giudice manifestamente infondata, è rimessa alla Corte Costituzionale per la sua decisione».
Nell'accesso in via incidentale, detto parimenti in via d'eccezione, per differenziarlo da quello in via d'azione, presuppone l'esistenza di un giudizio principale, per contrapposizione al giudizio incidentale che è quello che si instaura dinnanzi alla Corte Costituzionale.
Nel corso del giudizio principale il giudice a quo se vuole che la questione di legittimità costituzionale acceda al giudizio della Corte Costituzionale deve accertare che la questione di costituzionalità sia "rilevante" e sia "non manifestamente infondata"; la rilevanza riguarda una precisa disposizione di legge la cui applicazione appare necessaria per la definizione del giudizio in corso; mentre il fatto che la questione di costituzionalità appaia "non manifestamente infondata" sta a significare che il giudice accerta che solo sommariamente esiste un dubbio sulla costituzionalità della legge che si deve applicare.
Qualora ci siano i suddetti presupposti, il giudice a quo deve sospendere il giudizio in corso e rimettere con ordinanza la questione di legittimità alla Corte Costituzionale,
Nel caso, invece, il giudice a quo non riscontri l'esistenza delle due condizioni di ammissibilità, respinge con ordinanza motivata l'eccezione di illegittimità costituzionale per irrilevanza o per manifesta infondatezza.
Le decisioni della Corte Costituzionale assumono la forma della Sentenza (quando la Corte giudica in via definitiva) o dell'ordinanza (in tutti gli altri casi, così come previsto dalla L. n. 87/1953, art. 18).
Riguardo alla tipologia, le sentenza della Corte Costituzionale possono essere di diverso tipo e contenuto:
- Sentenze di accoglimento, attraverso le quali la Corte Costituzionale, dopo aver compiuto una valutazione sulla questione di costituzionalità, la accoglie, dichiarando pertanto incostituzionale la legge in esame.
Esse hanno efficacia erga omnes, ovvero nei confronti di tutti, dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta Ufficiale.
Ciò implica che qualunque altro giudice che si trovi ad applicare quella norma per decidere una controversia non potrà più utilizzarla, essendo stata ritenuta incostituzionale.
Di norma l'efficacia delle Sentenze di accoglimento è irretroattiva, nel senso che incide solo sui rapporti che nasceranno da quel momento in poi.
Esistono tuttavia delle eccezioni, allorquando le Sentenze della Corte retroagiscono ed esplicano i loro effetti su situazioni ancora pendenti (si pensi ai giudizi in corso ossia a quelli chiusi con sentenza non ancora passata in giudicato) oppure quando si tratti di giudizi conclusi con sentenza di condanna penale irrevocabile, sulla base della legge che viene dichiarata incostituzionale.
- Sentenze di rigetto, con le quali la Corte Costituzionale, dopo aver effettuato il giudizio sulla questione di costituzionalità della legge, ritiene il problema non fondato e pertanto riconosce che la legge rispetta la Costituzione.
Queste Sentenze non hanno un'efficacia erga omnes, ma solo tra le parti interessate dal giudizio di costituzionalità; quindi la legge potrà essere applicata in altri giudizi e potrà altresì essere promosso davanti alla Corte Costituzionale un altro giudizio di costituzionalità sulla stessa legge, purché fondato su motivazioni diverse.
- Sentenze interpretative, che hanno ad oggetto l'interpretazione data ad una legge; possono essere di accoglimento o di rigetto. Le prime si determinano allorquando la Corte Costituzionale dichiara l'incostituzionalità di una determinata interpretazione della legge e ne impone una conforme alla Costituzione; le seconde quando dichiara la legge costituzionalmente legittima purché interpretata in un certo modo. Queste sentenze hanno efficacia erga omnes.
- Sentenze c.d. manipolative di accoglimento, con le quali la Corte Costituzionale rivede, "manipola" il contenuto di una legge, per evitare di dichiararla incostituzionale ed impedire così la formazione di un vuoto normativo nel sistema.
Esse hanno efficacia erga omnes e si distinguono in base al tipo di intervento operato dalla Corte Costituzionale in:
- additive, con le quali la Corte dichiara l'incostituzionalità della disposizione impugnata "nella parte in cui non prevede" un qualcosa che invece dovrebbe prevedere;
- ablative, con le quali la Corte dichiara incostituzionale la disposizione impugnata "nella parte in cui prevede" qualcosa che non avrebbe dovuto prevedere;
- sostitutive, con le quali la Corte dichiara incostituzionale una disposizione nella parte in cui prevede un qualcosa anziché prevedere un'altra cosa.
- Sentenze di incostituzionalità parziale, con le quali la Corte elimina solo quella parte della legge considerata incostituzionale. Queste sentenze hanno efficacia erga omnes.
L'art. 136, comma 1, della Costituzione afferma che «quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione»; mentre l'art. 137, comma 3 prevede che: «contro le decisioni della Corte Costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione».
Nel caso di Sentenze penali di condanna in base ad una legge dichiarata in seguito costituzionalmente illegittima, cessano l'esecuzione e gli effetti penali (L. n. 87/1953, art. 30, comma 4), venendosi così a tutelare la persona condannata a seguito d una norma dichiarata incostituzionale.
Tutto ciò detto e premesso, ritornando alla legge Delrio, la Corte Costituzionale con la Sentenza 24 marzo 2015, n. 50 (deposito del 26 marzo 2015), ha ritenute non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle Regioni Lombardia, Veneto, Campania e Puglia riguardo la riforma della Province; Regioni che avevano impugnato, complessivamente, cinquantotto commi dell'art. 1 della legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni), per contrasto (congiuntamente o disgiuntamente) con le disposizioni previste agli artt. 1, 2, 3, 5, 48, 97, 114, 117, 118, 119, 120, 123, 133, 136 e 138 della Costituzione.
Le disposizioni censurate riguardano quelle di cui ai seguenti commi del predetto art. 1:
- da 5 a 19, 21, 22, 25, 42 e 48, sulla istituzione e disciplina delle «Città metropolitane»;
- da 54 a 58, da 60 a 65, 67, da 69 a 79, 81 e 83, sulla ridefinizione dei confini territoriali e del perimetro delle competenze delle Province («in attesa della riforma del titolo V della Parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione»);
- da 89 a 92 e 95, concernenti modalità e tempistiche del procedimento di riordino delle funzioni ancora attribuite alle Province ed allo scorporo di quelle ad esse sottratte e riassegnate ad altri enti;
- 4, 105, 106, 117, 124, 130 e133, in tema di Unioni e fusioni di Comuni;
- 149, sulla prevista predisposizione, da parte del Ministro per gli affari regionali, di «appositi programmi di attività», per accompagnare e sostenere l'applicazione degli interventi di riforma.
Il primo gruppo di norme sottoposte al vaglio di costituzionalità attiene all'istituzione e disciplina dell'ente territoriale, così detto di «area vasta», delle «Città metropolitane» (funzionale al prefigurato disegno finale di soppressione delle Province con fonte legislativa di rango costituzionale).
Vengono censurate, dunque, le disposizioni della legge Delrio con le quali si istituiscono le Città metropolitane di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria e si determinano i principi della correlativa disciplina «di grande riforma economica e sociale», con riguardo alle aree metropolitane da adottare dalle Regioni autonome, in conformità ai rispettivi statuti; che disegnano il territorio delle Città metropolitane in coincidenza «con quello della Provincia omonima», facendo salva «l'iniziativa dei Comuni, ivi compresi i Comuni capoluogo delle Province limitrofe […] per l'adesione alla Città metropolitana; che individuano gli organi di dette Città metropolitane; sulle materie disciplinate dallo statuto, con previsione di delegabilità di specifiche funzioni (da Comuni od Unioni) alla Città metropolitana e viceversa; sulla tempistica per la costituzione delle Città metropolitane; sulla composizione e modalità di elezione di una conferenza statutaria per la redazione di una proposta di statuto della Città metropolitana; sulla temporanea e limitata prorogatio dei poteri di Presidenti e Giunte delle Province in carica alla data di entrata in vigore della legge n. 56/2014; sulle prime elezioni del Consiglio metropolitano; sulla successione delle Città metropolitane nei rapporti attivi e passivi e nell'esercizio delle funzioni, delle Province omonime, cui subentrano; sulla procedura del potere sostitutivo in caso di mancata approvazione dello statuto entro il 30 giugno 2015; sulle norme in base alle quali il Sindaco metropolitano è di diritto il Sindaco del Comune capoluogo; sulla condizione della previa articolazione, in più Comuni, del territorio del Comune capoluogo, ai fini della eleggibilità diretta (ove statutariamente prevista) del Sindaco e del Consiglio metropolitano; sulla composizione del «Consiglio metropolitano» (eletto dai Sindaci e dai Consiglieri dei Comuni della Città metropolitana); sulla Conferenza metropolitana, «composta dal Sindaco metropolitano che la convoca e la presiede, e dai Sindaci dei Comuni appartenenti alla Città metropolitana; sulle disposizioni e sul trattamento economico applicabili al personale delle Città metropolitane.
Le censure sollevate dalla Regioni ricorrenti si fondano prevalentemente sull'assunto che l'art. 117, comma 2, lett p) Cost., non consenta allo Stato d'istituire e disciplinare la Città metropolitana nonché sulla violazione dell'art. 133 Cost., per il quale - ai fini del mutamento delle Circoscrizioni provinciali e della perimetrazione delle Città metropolitane nell'ambito di una Regione - lo Stato potrebbe intervenire con proprie leggi, ma solo «su iniziativa dei Comuni, sentita la stessa Regione» e, quindi, all'esito di un procedimento legislativo cosiddetto "rinforzato", nella specie, viceversa, omesso.
Un'altra censura riviene dal contrasto operato dalla legge Delrio (commi 7, 8, 9, 19, 25 e 42 dell'art. 1 della legge n. 56 del 2014) con gli artt. artt. 1, 5, 48, 114 e 117, comma 1, Cost. (quest'ultimo in relazione al parametro interposto costituito dall'art. 3, comma 2, della Carta europea dell'autonomia locale), nella parte in cui le previste istituzione e disciplina della Città metropolitana quale nuovo ente territoriale avente un modello di governo di secondo grado, caratterizzato totalmente da organi elettivi indiretti, si assume che sia in contrasto con il principio della rappresentanza politica democratica e con quello della sovranità popolare, suscettibili, invece, di essere, derogati soltanto con legge costituzionale, mediante l'osservanza del procedimento di revisione aggravata previsto dall'art. 138 Cost., il quale prevede che: «le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione.
Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.
Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti».
Le Regioni Lombardia e Veneto hanno anche prospettato la illegittimità costituzionale dei commi 7, 8, 9, 16, 19, 21, 25 e 42 dell'art. 1 della legge n. 56 del 2014, per violazione degli artt. 3, 5, 117, primo comma e 118 Cost., sul presupposto che le censurate disposizioni contrasterebbero con il principio di autonomia degli enti territoriali locali, con quello di rappresentatività e democraticità (non risultando prevista l'elezione di almeno un organo collegiale a suffragio universale e diretto), oltre che con quelli di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, la cui lesione discenderebbe dalla disposta attribuzione della regolamentazione dell'allocazione delle funzioni amministrative di detti nuovi enti territoriali alla competenza statale, in dispregio della riserva legislativa conferita alle Regioni.
La Regione Lombardia ha, altresì, espresso il dubbio di violazione anche dell'art. 119 Cost. nella parte in cui le disposizioni denunciate della legge Delrio contrasterebbero con il principio di necessaria democraticità del governo delle autonomie locali, sotto l'ulteriore profilo del riconoscimento della loro autonomia finanziaria e della loro autorità impositiva.
La Regione Puglia ha poi denunciato l'incostituzionalità del comma 17 (in correlazione anche ai successivi commi 81 e 83) dell'art. 1 della legge n. 56 del 2014, in ragione della prospettata illegittimità della previsione dell'esercizio del potere sostitutivo straordinario dello Stato per l'eventualità della mancata realizzazione della potestà statutaria delle Province e delle Città metropolitane; mentre la Regione Lombardia ha censurato poi il comma 19 del predetto art. 1 della L. n. 56/2014, quanto alla adottata soluzione per cui il Sindaco del Comune capoluogo è di diritto il Sindaco della Città metropolitana.
Al contempo le Regioni Puglia e Campania hanno sostenuto l'incostituzionalità del comma 22 dell'art. 1 della L. n. 56/2014, per il profilo delle gravosità degli adempimenti e delle condizioni cui è subordinata la possibilità di successiva elezione diretta del Sindaco metropolitano.
Inoltre la Regione Puglia contesta la disposizione di cui comma 48 concernente l'applicazione al personale metropolitano delle disposizioni vigenti per il personale delle Province che sarebbe «incostituzionale nella misura in cui si riferisce anche alla disciplina inerente il rapporto d'ufficio, oltre che a quella concernente il rapporto di servizio, da ritenersi di competenza statale in virtù del titolo di intervento "ordinamento civile"» e denuncia anche i commi 10 e 11, lettere b) e c), e, parallelamente, il comma 89, lettera a), dell'art. 1 della legge n. 56/2014 «nella parte in cui disciplinerebbero aspetti organizzativi delle Città metropolitane (e delle Province) diversi da quelli concernenti gli «organi di governo» (art. 117, secondo comma, lettera p, Cost.); i commi 9 e 11 (e 89), in quanto regolerebbero funzioni delle Città metropolitane (e delle Province) non riconducibili alla competenza dello Stato in materia di funzioni fondamentali o nelle altre materie di competenza esclusiva di quest'ultimo (art. 118, secondo comma, Cost.)».
A sua volta l'Avvocatura dello Stato ha contestato la fondatezza di ciascuna delle riferite censure in quanto le norme impugnate vanno ricondotte alla competenza statuale, in merito alla istituzione delle Città metropolitane implicata nell'art. 114 Cost. ed ha sostenuto il sostanziale rispetto del procedimento di cui all'art. 133, primo comma, Cost., «per quanto attiene alla correlativa conformazione territoriale, la legittimità dell'adottato modello di governo, di secondo grado, del nuovo ente territoriale; ed escludendo, infine, la violazione dei parametri evocati dalle ricorrenti con riguardo ai sopra menzionati singoli specifici aspetti disciplinatori dell'ente medesimo».
Ad avviso della Corte Costituzionale «le questioni sin qui esaminate non sono fondate».
Nel merito il giudice delle leggi "stronca" le tesi sostenute (e non senza ragione!) dalle Regioni ricorrenti, sorprendendo anche molti "addetti ai lavori" che confidavano, invece, su di una decisione diversa da parte della Consulta, "fiduciosi" che questa avrebbe sovvertito l'impostazione istituzionale scaturita a seguito dell'approvazione della legge n. 56/2014.
Non è fondata, ad avviso della Corte Costituzionale, la sollevata questione che sia incostituzionale l'istituzione delle Città metropolitane, in quanto tale materia non è prevista dall'art. 117, comma 2, lett. p); tale fatto, invece, ad avviso dei giudici della Consulta non comporta «l'automatica attribuzione alla rivendicata competenza regionale esclusiva», come evidentemente ritenuto dalle Regioni ricorrenti, sul presupposto che in tale caso si versi nell'ambito della clausola di residualità prevista dall'art. 117, comma 4 Cost., il quale dispone che: «spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato».
Ne consegue, secondo il ragionamento dei giudici della Suprema Corte, che «se esatta fosse, invero, una tale tesi si dovrebbe pervenire, per assurdo, alla conclusione che la singola Regione sarebbe legittimata a fare ciò che lo Stato "non potrebbe fare" in un campo che non può verosimilmente considerarsi di competenza esclusiva regionale, quale, appunto, quello che attiene alla costituzione della Città metropolitana, che è ente di rilevanza nazionale (ed anche sovranazionale ai fini dell'accesso a specifici fondi comunitari)».
Corretta invece, ad avviso della Consulta, è la posizione dell'Avvocatura dello Stato, la quale ha rilevato che ai sensi dell'art. 114 Cost. la Città metropolitana, al pari di Comuni, Province, Regioni, è elemento costitutivo della Repubblica, alla quale, dunque, compete il dovere legislativo della sua concreta istituzione; Città metropolitana che «non potrebbe […] avere modalità di disciplina e struttura diversificate da Regione a Regione, senza con ciò porsi in contrasto con il disegno costituzionale che presuppone livelli di governo che abbiano una disciplina uniforme, almeno con riferimento agli aspetti essenziali».
Per ciò che attiene la censura avanzata dalla Regione Campania «per cui l'individuazione specifica delle nove Province da trasformare in Città metropolitane, con esclusione di un procedimento generale per l'istituzione delle stesse, renderebbe la disposizione impugnata una legge-provvedimento, e comporterebbe, per ciò, violazione dei principi costituzionali di ragionevolezza (art. 3), di proporzionalità e di imparzialità (art. 97) è agevole rilevare, in contrario, che quella impugnata, individua non una sola, ma tutte le Province in relazione alle quali è stata, al momento, ritenuta opportuna la trasformazione in Città metropolitane.
Si tratta, pertanto, di una legge a carattere innegabilmente generale che, nell'istituire le Città metropolitane, contiene anche l'elenco di quelle effettivamente con essa istituite».
A sostegno della tesi riportata supra, «rileva anche il fatto che la normativa in esame costituisce [...] principio di grande riforma economica e sociale per le Regioni a statuto speciale, ai sensi del comma 5, ultimo periodo, dell'impugnato art. 1 della legge n. 56 del 2014».
A sua volta non fondata è anche la successiva questione procedimentale, per asserito contrasto della disposizione individuativa del territorio della Città metropolitana, fatto coincidere dall'art. 1, comma 6 della legge Delrio «con quello della Provincia omonima» con l'art. 133, comma 1 Cost., il quale, lo si ribadisce, prevede che «il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Provincie nell'ambito d'una Regione sono stabiliti con legge della Repubblica, su iniziative dei Comuni, sentita la stessa Regione».
Questione che è non fondata perché le regole procedurali previste dall'art. 133 Cost. sono riferibili «solo ad interventi singolari»; di conseguenza «il denunciato comma 6 dell'art. 1 della legge n. 56 del 2014, non manca, infatti, di prevedere espressamente l'iniziativa dei Comuni, ivi compresi i Comuni capoluogo delle Province limitrofe, ai fini dell'adesione (sia pure ex post) alla Città metropolitana, il che per implicito comporta la speculare facoltà di uscirne, da parte dei Comuni della Provincia omonima; e, a tal fine, la stessa norma dispone che sia sentita la Regione interessata e che, in caso di suo parere contrario, sia promossa una intesa tra la Regione stessa ed i Comuni che intendono entrare nella (od uscire dalla) Città metropolitana».
Il che «autorizza una lettura del citato comma 6 conforme al parametro in esso richiamato: lettura, questa, costituzionalmente adeguata che, per un principio di conservazione, non può non prevalere su quella, contra Constitutionem, presupposta dalle Regioni ricorrenti».
Ad avviso dei giudici della Suprema Corte anche la neo-governance istituzionale, vale a dire il modello di governo di secondo grado adottato dalla legge n. 56 del 2014 per le neoistituite Città metropolitane, appare conforme alla Costituzione.
Il tentativo delle difese regionali di ricondurre l'utilizzazione del termine "sovranità" al concetto di sovranità popolare, di cui al secondo comma dell'art. 1 Cost. e di identificare la sovranità popolare con gli istituti di democrazia diretta e con il sistema rappresentativo è già stato, infatti, ritenuto «non condivisibile» dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 365 del 2007.
Tale sentenza si è resa necessaria in quanto il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 (recte: artt. 1, comma 1, e 2, comma 2, lettera a), e comma 3), nonché della stessa rubrica della legge della Regione autonoma della Sardegna 23 maggio 2006, n. 7 (Istituzione, attribuzioni e disciplina della Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo sardo), in relazione agli artt. 1, 3, 4, 50 e 54 dello statuto speciale ed agli artt. 1, 3, 5, 16, 101, 114, 116, 117, comma primo e comma secondo, lettere a), d), h) e l), 120 132, 133 e 138 della Costituzione.
L'art. 1, della l.r. Sardegna, n. 7/2006 prevede che: «il Consiglio regionale istituisce una Consulta per l'elaborazione di un progetto organico di nuovo statuto di autonomia e di sovranità del popolo sardo, al fine di assicurare la più ampia partecipazione della comunità regionale e dei sardi residenti fuori dall'Isola ed il concorso delle autonomie locali».
Per il ricorrente (Presidente del Consiglio dei ministri) l'utilizzazione del termine "sovranità" disattenderebbe, in primo luogo, la logica dello statuto speciale di autonomia e, ancor prima, la stessa Costituzione, che (a cominciare dall'art. 114 Cost.) fa riferimento alle Regioni «sempre e solo in termini di autonomia, mai in termini di sovranità», essendo quest'ultima riferita esclusivamente al "popolo" inteso come intera comunità nazionale.
Ciò che viene censurato è «parlare di sovranità del popolo sardo o di sovranità regionale» nella possibile delimitazione della materia entro cui formulare da parte della Consulta la proposta di nuovo statuto regionale.
Ad avviso dei giudici costituzionali è necessario chiarire il significato del termine "sovranità" utilizzato nelle disposizioni impugnate, stante la sua natura polisemantica.
«Non condivisibile appare […] il reiterato tentativo della difesa regionale di ricondurre l'utilizzazione del termine sovranità al concetto di sovranità popolare di cui al secondo comma dell'art. 1 Cost., nonché di identificare la sovranità popolare con gli istituti di democrazia diretta e con il sistema rappresentativo che si esprime anche nella partecipazione popolare nei diversi enti regionali e locali».
Sempre nella Sentenza n. 365 del 2007, è stato ribadito che «né[anche] tra le pur rilevanti modifiche introdotte dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) può essere individuata una innovazione tale da equiparare pienamente tra loro i diversi soggetti istituzionali, che pure tutti compongono l'ordinamento repubblicano, così da rendere omogenea la stessa condizione giuridica di fondo dello Stato, delle Regioni e degli enti territoriali».
Ciò detto, con la sentenza n. 50/2015, la Corte Costituzionale ribadisce la non «automatica indispensabilità che gli organi di governo [degli enti] siano direttamente eletti», come invece vorrebbero desumere le Regioni ricorrenti.
D'altra parte già con la sentenza n. 96 del 1968, la Corte Costituzionale ha affermato la piena compatibilità di un meccanismo elettivo di secondo grado con il principio democratico e con quello autonomistico, escludendo che il carattere rappresentativo ed elettivo degli organi di governo del territorio venga meno in caso di elezioni di secondo grado, «che, del resto, sono prevedute dalla Costituzione proprio per la più alta carica dello Stato».
La sentenza n. 96/1968 era stata emessa dalla Corte Costituzionale nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 10 della legge regionale siciliana 7 febbraio 1957, n. 16, concernente l'elezione dei Consigli delle Provincie siciliane, promosso con ordinanza emessa il 1 luglio 1966 dal Tribunale di Palermo.
La questione rimessa all'esame della Corte, con l'ordinanza di rinvio, è se possa ritenersi in contrasto con i principi di eguaglianza e segretezza del voto, garantiti dall'art. 48 della Costituzione, l'art. 7 della legge regionale siciliana 7 febbraio 1957, n. 16, sulla "Elezione dei Consigli delle Provincie siciliane", il quale dispone che: «i Consiglieri comunali concorrono alla elezione del Consiglio provinciale in misura proporzionale ai voti validi portati dalla lista nella quale sono stati eletti» (art. 7 - Voto plurimo -).
Tale questione è stata dichiarata manifestamente infondata.
Con la Sentenza n. 96/1968 i giudici costituzionali sono dell'avviso che «il voto plurimo preveduto dall'art. 7 non è in contrasto col principio di eguaglianza sancito dall'art. 48 della Costituzione, ma risulta, anzi, manifestamente preordinato alla più esatta osservanza di quel principio, per una completa salvaguardia dei diritti delle minoranze […] senza il voto plurimo, pertanto, i Consiglieri di minoranza dei Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, si troverebbero in grave condizione di inferiorità, non soltanto nei confronti dei colleghi di maggioranza degli stessi Comuni, ma anche nei confronti dei colleghi in minoranza eletti col sistema proporzionale nei Comuni con popolazione superiore ai 5.000 abitanti»; di conseguenza per la Corte Costituzionale «quando nelle elezioni di secondo grado l'elettorato attivo è attribuito ad un cittadino eletto dal popolo in sua rappresentanza, non contrasta col principio di eguaglianza, ma anzi vi si conforma, la norma che faccia conto del numero di elettori che gli conferirono il proprio voto, e con esso la propria fiducia».
Ciò detto e ritornando alla Sentenza della Suprema Corte n. 50/2015 in esame, la legge Delrio non contrasta nemmeno con l'art. 3, comma 2, della Carta europea dell'autonomia locale, invocata dalle ricorrenti, nella parte in cui prevederebbe che almeno uno degli organi collegiali sia ad elezione popolare diretta.
La Carta europea dell'autonomia locale, conclusa a Strasburgo il 15 ottobre 1985 tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa, «considerando che le collettività locali costituiscono uno dei principali fondamenti di ogni regime democratico; considerando che il diritto dei cittadini a partecipare alla gestione degli affari pubblici fa parte dei principi democratici comuni a tutti gli Stati membri del Consiglio d'Europa; affermando che ciò presuppone l'esistenza di collettività locali dotate di organi decisionali democraticamente costituiti, che beneficino di una vasta autonomia per quanto riguarda le loro competenze, le modalità d'esercizio delle stesse ed i mezzi necessari all'espletamento dei loro compiti istituzionali», prevede all'art. 3, che: «per autonomia locale, s'intende il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare nell'ambito della legge, sotto la loro responsabilità, e a favore delle popolazioni, una parte importante degli affari pubblici.
Tale diritto è esercitato da Consigli e Assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario, diretto ed universale, in grado di disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti. Detta disposizione non pregiudica il ricorso alle Assemblee di cittadini, al referendum, o ad ogni altra forma di partecipazione diretta dei cittadini qualora questa sia consentita dalla legge».
Nella sentenza n. 50/2015, i giudici della Corte Costituzionale sostengono che: «a prescindere dalla natura di documento di mero indirizzo della suddetta Carta europea, che lascia ferme le competenze di base delle collettività locali […] stabilite dalla Costituzione o della legge», come riconosciuto nella Sentenza di questa Corte n. 325 del 2010, al fine, appunto, di escludere l'idoneità delle disposizioni della Carta stessa ad attivare la violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., è comunque decisivo il rilievo che l'espressione usata dalla norma sovranazionale, nel richiedere che i membri delle assemblee siano "freely elected", ha, sì, un rilievo centrale quale garanzia della democraticità del sistema delle autonomie locali, ma va intesa nel senso sostanziale della esigenza di una effettiva rappresentatività dell'organo rispetto alle comunità interessate».
Pertanto, ad avviso della Consulta, non è esclusa la possibilità di una elezione indiretta dei membri dell'assemblea, a condizione che siano previsti meccanismi alternativi che comunque permettano di assicurare una reale partecipazione dei soggetti portatori degli interessi coinvolti; meccanismi rappresentativi che ad avviso dei giudici costituzionali sussistono, atteso che è imposta «la sostituzione di coloro che sono componenti "ratione muneris" dell'organo indirettamente eletto, quando venga meno il munus (art. 1, comma 25, ed analogamente, con riguardo ad organi delle Province, commi 65 e 69). Senza tener in debito conto che l'art. 1, comma 22 della L. n. 56/2014, espressamente dispone che «lo Statuto della Città metropolitana può prevedere l'elezione diretta del Sindaco e del Consiglio metropolitano».
Pure altre censure poste in essere dalle Regioni ricorrenti e concernenti la Città metropolitana superano il vaglio di costituzionalità; censure che nel caso di specie riguardano la figura del Sindaco metropolitano; la Conferenza metropolitana; il personale delle Città metropolitane; le norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente; le modalità di organizzazione e di esercizio delle funzioni metropolitane; l'esercizio del potere statuale sostitutivo.
Per ciò che concerne la figura del Sindaco metropolitano la Suprema Corte è dell'avviso che l'individuazione nel Sindaco del Comune capoluogo di Provincia non è irragionevole in fase di prima attuazione del nuovo ente territoriale e non è, comunque, irreversibile, restando demandato allo statuto di detta Città metropolitana di optare per l'elezione diretta del proprio Sindaco; inoltre l'articolazione territoriale del Comune capoluogo in più Comuni non viola l'art. 133, comma 2 Cost., «non comprimendo in alcun modo le prerogative del legislatore regionale e non eliminando il coinvolgimento, nel procedimento, delle popolazioni interessate, atteso che la proposta del Consiglio comunale deve essere sottoposta a referendum tra tutti i cittadini della città metropolitana su base delle rispettive leggi regionali né contrasta con l'art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., essendo il presupposto, di cui si discute, comunque, riconducibile alla competenza statuale esclusiva in materia di legislazione elettorale […] di […] Città metropolitane».
Riguardo alla Conferenza metropolitana che si configura come organo decisore finale delle proprie competenze, fatte salve quelle riservate in via esclusiva al Sindaco metropolitano, la Corte Costituzionale non condivide la censura formulata in ragione del carattere riduttivo delle sue attribuzioni, nel contesto del sistema di governo della Città metropolitana, in quanto la Conferenza può vedersi attribuite ulteriori competenze dallo statuto, atto fondamentale di autorganizzazione dell'ente, il quale viene approvato dalla conferenza stessa.
Per quanto concerne il personale delle Città metropolitane, perché la disposizione di cui al comma 48 - che applica allo stesso il trattamento vigente per il personale delle Province, al quale, ove trasferito mantiene «fino al prossimo contratto il trattamento in godimento» - attiene alla sola prima fase del procedimento (per altro già in stato di avanzata attuazione) di riallocazione del personale a seguito del riordino delle funzioni attribuite agli enti coinvolti e dei profili finanziari connessi alla riforma introdotta dalla legge n. 56 del 2014, la quale, nella misura in cui coinvolga la materia «diritto civile», nella quale ricade la disciplina dei contratti in questione, risponde ad un titolo di competenza esclusiva dello Stato.
Per ciò che riguarda le «norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente», ivi comprese le attribuzioni degli organi, nonché l'articolazione delle loro competenze - che il comma 10 demanda allo statuto di stabilire - ciò che si censura rientra, comunque, nella disciplina complessiva degli «organi di governo» di cui alla lettera p) del comma secondo dell'art. 117, Cost., oltreché in quella relativa alla Città metropolitana di cui all'art. 114 Cost..
Si ritengono conformi alla Costituzione anche le modalità di organizzazione e di esercizio delle funzioni metropolitane - che i commi 10 e 11, lettere b) e c), fanno rientrare tra i contenuti disciplinatori dello statuto - «perché non ha pregio [...], la censura che presuppone limitata alla disciplina dei singoli organi di governo la competenza statale relativa alla Città metropolitana» e le norme relative all'esercizio del potere statuale sostitutivo - previsto dal comma 17, «in caso di mancata approvazione dello statuto entro il 30 giugno 2015» - perché detta disposizione, a torto censurata in riferimento agli artt. 114, secondo comma, e 120, secondo comma, Cost., «trova la sua giustificazione nell'esigenza di realizzare il principio dell'unità giuridica su tutto il territorio nazionale in merito all'attuazione del nuovo assetto ordinamentale previsto dalla legge n. 56 del 2014».
Le Regioni ricorrenti hanno denunciato anche un altro gruppo di norme e precisamente quelle attinenti al nuovo modello ordinamentale delle Province (per le quali è in corso l'approvazione di un progetto che ne prevede la futura soppressione, con la loro conseguente eliminazione dal novero degli enti autonomi riportati nell'art. 114 Cost.); vale a dire quelle che al comma 54 definiscono gli organi delle Province: a) il Presidente della Provincia, b) il Consiglio provinciale; c) l'assemblea dei Sindaci; quelle che ai commi 55, 58, 60-65 riguardano le funzioni, i requisiti di eleggibilità, le modalità di elezione, nonché le cause di decadenza del Presidente della Provincia; quelle che al comma 56 riguardano l'assemblea dei Sindaci costituita dai Sindaci dei Comuni appartenenti alla Provincia; quelle che al comma 57 si riferiscono alla possibilità che gli statuti delle Province prevedano, d'intesa con la Regione, «la costituzione di zone omogenee per specifiche funzioni, con organismi collegati agli organi provinciali senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica»; quelle che ai commi 67 e 69-78 attengono alla composizione del Consiglio provinciale e ai requisiti di eleggibilità e modalità di elezione dei Consiglieri provinciali; quelle che al comma 79 riguardano l'elezione del Presidente della Provincia e del Consiglio provinciale in sede di prima applicazione della legge n. 56/2014; quelle che ai commi 81 e 83 riguardano le «modifiche statutarie conseguenti alla presente legge», demandate al Consiglio provinciale (ed alla approvazione del Collegio dei Sindaci) ed all'eventuale esercizio del potere sostitutivo ex art. 8 della legge 5 giugno 2013, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3).
In riferimento a tale complessivo contesto normativo, le Regioni ricorrenti convergono nell'ipotizzare la violazione, in primo luogo, degli artt. 5 e 114, oltre che all'art. 117, primo comma, Cost., con riferimento al parametro interposto individuabile nel già richiamato art. 3, comma 2, della cosiddetta Carta europea dell'autonomia locale, sul presupposto che le Province non sarebbero più configurate come enti rappresentativi delle popolazioni locali (secondo quanto ancora impone la Costituzione attuale), ma come enti di secondo grado, la cui modalità elettiva degli organi politici comporterebbe la totale esclusione dell'esercizio della sovranità popolare.
Le ricorrenti Regioni prospettano, inoltre, la violazione dei principi di sussidiarietà verticale e di ragionevolezza, a causa della supposta inversione logica del modello di allocazione/distribuzione delle funzioni amministrative rispetto alla disciplina contemplata dalla Costituzione, venendosi a determinare la lesione del principio di necessaria democraticità di governo delle autonomie locali, anche in ordine al riconoscimento della loro autonomia finanziaria e della loro autorità impositiva.
Ciò detto, i giudici della Suprema Corte, però, sono del parere che le censure che le Regioni ricorrenti rivolgono anche al riordino delle Province sono non fondate.
Non è pertinente, ad avviso dei giudici costituzionali il richiamo all'art. 138 Cost.: «le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione […]», in quanto il richiamato art. 138 risulterebbe obbligato nel solo caso di soppressione delle Province, e non anche in quello di riordino dell'ente medesimo.
Infondate, inoltre, appaiono le censure rivolte al modello di governo di secondo grado, parimenti adottato per il riordinato ente Provincia, sulla base delle medesime ragioni già esposte con riferimento alle Città metropolitane e della considerazione che inerisce, comunque, alla competenza dello Stato nella materia «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di […] Province» (art. 117, secondo comma, lettera p, Cost.).
Per ciò che attiene la proroga dei commissariamenti delle Province non corrisponde al vero che essa, come rilevano le Regioni ricorrenti, sia a tempo indeterminato.
Infatti iI comma 82 dell'art. 1 in esame dispone che per le Province già oggetto di commissariamento, il commissario, a partire dal 1° luglio 2014, muti natura, e cioè, sostanzialmente, decada, dando vita, pur nella coincidenza della persona fisica, ad un organo diverso che, privo dei poteri commissariali, è chiamato ad assicurare, a titolo gratuito, la gestione della fase transitoria solo «per l'ordinaria amministrazione e per gli atti urgenti e indifferibili, fino all'insediamento del presidente della provincia eletto ai sensi dei commi da 58 a 78».
Le Regioni ricorrenti con riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 97, 114, 117, comma 2, lettera p) e 120 Cost. denunciano, in particolare, le disposizioni di cui ai commi 89, 90, 91, 92 e 95 (e la Regione Veneto anche quelle di cui ai commi 54, 55, 56, 58, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 67 e da 69 a 79), nella parte in cui dette norme, nel loro complesso, conferirebbero alla legislazione statale, al di fuori di ogni competenza statale in merito, la materia delle «funzioni fondamentali delle Province», appartenendo, invece, la legittimazione a stabilire le modalità e le tempistiche per la riallocazione delle funzioni "non fondamentali" delle Province, nonché ad individuare le risorse connesse agli eventuali trasferimenti, alla competenza regionale, in base ai «principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza ed in conformità ai principi di ragionevolezza, dell'opportunità e della coerenza con i fini perseguiti, oltre che di quello del buon andamento dell'azione amministrativa e del principio di leale collaborazione a cui deve informarsi l'esercizio del potere sostitutivo».
Ad avviso della Regione Puglia, quanto previsto dall'art. 1, comma 92, della legge Delrio, vale a dire che «i criteri generali per l'individuatone dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative connesse all'esercizio delle funzioni che devono essere trasferite» siano stabiliti «con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri», ancorché «previa intesa in sede di Conferenza unificata» determinerebbe la violazione degli artt. 3, primo comma e 118, primo comma, Cost., in quanto individuerebbe una uniforme allocazione di funzioni amministrative agli enti di area vasta in tutte le Regioni; fatto che provocherebbe un contrasto con il principio di eguaglianza e di ragionevolezza (che imporrebbe, invece, di distinguere il trattamento giuridico di situazioni non omogenee) e con il principio di differenziazione e contrasterebbe, altresì, con l'art. 117, terzo comma, Cost., «nella parte in cui si rivolgerebbe a funzioni ricadenti nelle materie di competenza concorrente in quanto tale disposizione costituzionale impone che principi fondamentali siano stabiliti dallo Stato, mediante fonte di rango legislativo, e non mediante decreto del Presidente del Consiglio dei ministri».
Ciò detto, la Suprema Corte rileva che i commi da 85 a 96 dell'art. 1 della legge n. 56 del 2014 riguardano le funzioni delle "nuove" Province, indicando quelle "fondamentali" che rimangono a loro attribuite e prevedendo, per le altre funzioni "non fondamentali" esercitate all'atto dell'entrata in vigore della citata legge n. 56 del 2014 (ovvero all'8 aprile 2014), il trasferimento delle stesse ad altri enti territoriali (comma 89).
Allo scopo di rendere concretamente operativo il trasferimento delle funzioni come descritte, nel termine previsto dal comma 91, il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'interno e del Ministro per gli affari regionali, di concerto con i Ministri per la semplificazione e la pubblica amministrazione e dell'economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza unificata, avrebbe dovuto stabilire con proprio decreto i criteri generali per l'individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane (previa consultazione delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative), strumentali e organizzative connesse all'esercizio delle funzioni che sarebbero state trasferite agli enti subentranti, garantendo i rapporti di lavoro in corso.
Importanza centrale, nel descritto complesso procedimento di riordino, rivestiva, dunque, l'accordo in Conferenza unificata, quale accordo-quadro demandato all'individuazione, in primo luogo, del concreto perimetro delle funzioni fondamentali (comma 85) e, di conseguenza, alla determinazione delle altre funzioni oggetto di possibile trasferimento.
Ed è sulla base di tale accordo che lo Stato e le Regioni avrebbero dovuto emanare gli atti di propria pertinenza, nel rispetto del riparto delle competenze legislative previsto dalla Costituzione, in maniera da ricomporre le funzioni amministrative, in modo organico, a livello di governo ritenuto adeguato.
«In dipendenza dell'attuazione del complesso procedimento delineato nei commi da 89 a 92 dell'art. 1 della legge n. 56 del 2014, culminato nell'Accordo sancito nella Conferenza unificata dell'11 settembre 2014 e seguito dall'emissione del d.p.c.m. indicato nel comma 92, può ritenersi venuto meno l'interesse delle Regioni ricorrenti e si può, quindi, dichiarare cessata la materia del contendere sul complesso motivo in esame, sia in virtù della definizione congiunta delle competenze (in relazione al processo di riordino) e della loro ripartizione tra Stato e Regioni in conformità dei titoli di legittimazione stabiliti dalla Costituzione e delle linee direttrici della stessa legge n. 56 del 2014, sia avuto riguardo al rispettato principio di leale collaborazione da parte dello Stato. Atteso che quest'ultimo - proprio al fine di concretizzare il menzionato procedimento complessivo di riorganizzazione delle funzioni - ne ha posto in essere la modalità attuativa rispettando il criterio della stipula dell'Accordo in sede di Conferenza unificata imposto dal comma 91, ispirata dalla necessaria concertazione con le Regioni, sentite previamente le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. In tal modo non già agendo secondo una logica di esercizio di potere unilaterale, bensì di garanzia della esplicazione in una posizione paritaria del ruolo delle Regioni partecipanti all'accordo, e così assicurando il rispetto del predetto fondamentale principio».
Non fondata è poi la questione di costituzionalità riferita all'art. 1, commi 17, 81 e 83, della legge n. 56 del 2014, sollevata dalla Regione Puglia in relazione agli artt. 114, secondo comma, e 120, secondo comma Cost. con riguardo alla denunciata illegittimità della previsione dell'esercizio del potere sostitutivo straordinario dello Stato, per l'eventualità della mancata realizzazione della potestà statutaria delle Province e delle Città metropolitane; come non fondata è la questione che attiene alla previsione (sub comma 95) del potere sostitutivo dello Stato in caso di inerzia delle Regioni, rispetto all'attuazione dell'accordo di cui al comma 91.
L'ultimo gruppo di questioni concerne le disposizioni sulle Unioni di comuni, enti locali costituiti da due o più Comuni per l'esercizio associato di funzioni o servizi di loro competenza» e quelle inerenti il processo di fusione di più Comuni in un nuovo Comune e di incorporazione di un Comune in altro contiguo.
A tal proposito la Regione Campania ha, per un verso, dedotto il supposto difetto del titolo di competenza in capo allo Stato, ravvisando in ordine alla regolamentazione normativa delle Unioni di comuni la sussistenza della competenza regionale residuale in relazione al disposto dell'art. 117, quarto comma, Cost. e, per altro verso, avuto riguardo alle censure attinenti al procedimento di fusione tra Comuni (con specifico riferimento ai commi 22 e 130 dell'art. 1 della legge in questione), ha denunciato la lesione degli artt. 123, primo comma, e 133, secondo comma, Cost., sotto il profilo dell'asserita invasione della competenza regionale nella materia concernente l'istituzione di nuovi enti comunali nell'ambito del suo territorio, da realizzarsi garantendo la preventiva audizione delle popolazioni concretamente interessate, e senza trascurare, altresì, la (ritenuta) violazione della riserva statutaria regionale in ordine alla disciplina dei referendum riguardanti le leggi ed i provvedimenti di competenza, per l'appunto, regionale; mentre la Regione Puglia, dal suo canto, ha dedotto, sia con riferimento alla disciplina delle Unioni tra comuni che con riguardo a quella della fusione tra gli stessi, l'illegittimità delle relative disposizioni, sotto il profilo della ravvisata violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., dovendosi a proposito di detta materia, ritenere operativa la competenza regionale residuale prevista dal medesimo art. 117 al quarto comma, in quale prevede che: «spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato».
Secondo la Suprema Corte Costituzionale «anche tali questioni sono non fondate» poiché in materia di Unioni di comuni non vi è violazione della competenza delle Regioni.
Infatti le Unioni di comuni sono associazioni di Comuni per l'esercizio congiunto di funzioni o servizi di loro competenza e non costituiscono per nulla un ente locale diverso dal Comune, fatto che determina in materia la competenza dello Stato, ai sensi dell'art. 117, comma 2, Cost.; inoltre le disposizioni sulle Unioni di comuni introducono misure semplificatorie volte al contenimento della spesa pubblica (intervenendo sugli organi, sulla loro composizione, sulla gratuità degli incarichi e sul divieto di avvalersi di una segreteria comunale) - oltre che al conseguimento di obiettivi di maggiore efficienza o migliore organizzazione delle funzioni comunali e si inseriscono nei «principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, non suscettibili, per tal profilo, di violare le prerogative degli enti locali (ex plurimis, Sentenze n. 44 e n. 22 del 2014, n. 151 del 2012, n. 237 del 2009)».
Riguardo alla disciplina della fusione di comuni, la disposizione della legge Delrio (art. 1, comma 130, procedimento di fusione per incorporazione in un Comune contiguo), ad avviso dei giudici costituzionali «non ha ad oggetto l'istituzione di un nuovo ente territoriale (che sarebbe senza dubbio di competenza regionale) bensì l'incorporazione in un Comune esistente di un altro Comune, e cioè una vicenda (per un verso aggregativa e, per altro verso, estintiva) relativa, comunque, all'ente territoriale Comune, e come tale, quindi, ricompresa nella competenza statale nella materia "ordinamento degli enti locali", di cui all'art. 117, secondo comma, lettera p), Cost»; fatto che determina la non fondatezza, anche in questo caso, della censura di violazione del titolo di competenza fatto valere dalle Regioni ricorrenti, in prospettiva applicativa del criterio residuale, di cui al quarto comma dell'art. 117 Cost.
Insussistente è, a sua volta, l'ulteriore violazione degli artt. 123 e 133, secondo comma, Cost. denunciata dalla Regione Campania, con riferimento al medesimo comma 130 (ed in correlazione con il precedente comma 22) dell'art. 1 della legge in esame, riguardante il procedimento di fusione per incorporazione di più Comuni poiché il censurato comma 130 demanda la disciplina del referendum consultivo comunale delle popolazioni interessate (quale passaggio indefettibile del procedimento di fusione per incorporazione) proprio alle specifiche legislazioni regionali, rimettendo, peraltro, alle singole Regioni l'adeguamento delle stesse rispettive legislazioni, onde consentire l'effettiva attivazione della nuova procedura, sul presupposto che le disposizioni contenute nella legge n. 56 del 2014 non siano, di per sé, esaustive. Per cui non risulta scalfita l'autonomia statutaria spettante in materia a ciascuna Regione.
Infine la Regione Campania ha proposto un'ulteriore questione di legittimità costituzionale del comma 149 della L. n. 56/2014, nella parte in cui prevede che «al fine di procedere all'attuazione di quanto previsto dall'articolo 9 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95», il Ministro per gli affari regionali predispone appositi programmi di attività contenenti modalità operative e altre indicazioni per sospetta violazione degli artt. 97, 117, 118, 123 e 136 Cost. e, ciò sul rilievo che, con la norma censurata, sarebbe stata prevista la "reviviscenza" del richiamato art. 9 del d.l. n. 95 del 2012, malgrado la sua sopravvenuta abrogazione per effetto dell'art. 1, comma 562, lettera a), della legge n. 147 del 2013 e la sua intervenuta dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale ad opera della sentenza n. 236 del 2013, oltre che per lesione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite nella materia «organizzazione amministrativa regionale».
Anche tale ultima questione non è fondata, in quanto la norma censurata può essere infatti agevolmente interpretata in senso conforme a Costituzione, considerando la finalità attuativa dell'abrogato art. 9 del d.l. n. 95 del 2012 come inutiliter in essa enunciata, posto che l'obiettivo, che la norma stessa si pone - quello cioè di «accompagnare e sostenere l'applicazione degli interventi di riforma della presente legge» - ne sorregge, di per sé, il contenuto dispositivo: «il Ministro per gli affari regionali predispone, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, appositi programmi di attività contenenti modalità operative e altre indicazioni finalizzate ad assicurare, anche attraverso la nomina di commissari, il rispetto dei termini previsti per gli adempimenti di cui alla presente legge e la verifica dei risultati ottenuti. Su proposta del Ministro per gli affari regionali, con accordo sancito nella Conferenza unificata, sono stabilite le modalità di monitoraggio sullo stato di attuazione della riforma».
Per tutti questi motivi la Corte Costituzionale, riuniti i giudizi, dichiara non fondate le questioni di costituzionalità sollevate dalle Regioni Lombardia, Veneto, Campania e Puglia, in relazione alla L. n. 56/2014, cd. "Delrio".
Valutazioni conclusive: La riforma delle Province, dunque, supera il vaglio della Corte Costituzionale che con la sentenza n. 50/2015 in esame, ha respinto in blocco le obiezioni sollevate dalle Regioni ricorrenti che a loro volta avevano contestato la legittimità di 58 dei 151 commi dai quali è costituito l'articolo 1 della legge n. 56/2014.
I giudici della Suprema Corte, dunque, fanno salvo il modello di Governo di secondo grado, in base al quale gli organi politici di Province e Città metropolitane sono eletti fra i Consiglieri comunali del territorio; confermano la costituzionalità dell'istituzione stessa delle Città metropolitane; ritengono conforme alla Costituzione la nuova disciplina delle Unioni e delle fusioni di Comuni.
È necessario tener ben presente che la Sentenza n. 50/2015 con la quale il giudice delle leggi dichiara non fondate le questioni di costituzionalità, non significa che la partita sulla legge Delrio sia da considerarsi definitivamente chiusa poiché le argomentazioni addotte dalle Regioni avverso la legge in esame non è escluso che possano essere ripresentate alla Consulta, con differenti argomentazioni e motivazioni.
Il giudizio della Corte Costituzionale non è esente, però, da qualche rilievo.
Infatti, mentre nella Sentenza n. 50/2015 i giudici della Suprema Corte rilevano che la coincidenza tra il territorio della Città metropolitana e quello della Provincia omonima (art. 1, comma 6, legge n. 56/2014) non lede l'art. 133, comma 1, Cost. che delinea il percorso da seguire per l'istituzione di nuove Province e per la modifica delle circoscrizioni provinciali esistenti attraverso un coinvolgimento dal basso delle popolazioni interessate, in quanto la norma invocata riguarda solo singoli interventi; mentre nel caso di specie il legislatore statale ha voluto realizzare una «riforma di sistema della geografia istituzionale della Repubblica», in un suo precedente intervento in materia di Province (sent. n. 220/2013), la Corte Costituzionale aveva affermato l'indefettibilità del procedimento di cui all'art. 133, comma 1, Cost., vale a dire il suo non venir meno allorquando si interviene sull'elemento territoriale dell'ente Provincia.
Inoltre i giudici della Suprema Corte, con la Sentenza n. 365/2005 furono dell'avviso che il modello di governo indiretto ovvero di secondo livello per l'elezione del Presidente della Provincia e del Consiglio provinciale non fosse da ritenere in contrasto con la Costituzione e aveva bocciato l'idea che la sovranità popolare coincidesse esclusivamente con il sistema rappresentativo «che si esprime nella diretta partecipazione popolare nei diversi enti territoriali».
Rimanendo nel campo squisitamente giuridico occorre ammettere, visto il responso della Consulta, che la L. n. 56/2014 sia costituzionalmente legittima, in quanto nessuna delle numerose censure avanzate dalle Regioni ricorrenti è stata accolta dai giudici della Suprema Corte.
Tale assunto induce ad una riflessione più ampia sul problema del fondamento della validità di una norma.
Richiamando autorevolissima dottrina (KELSEN) si evidenzia come «il fondamento della validità di una norma non è la sua conformità alla realtà […] il vero fondamento riposa in norme presupposte tacitamente, perché considerate come pacifiche […] il fondamento della validità di una norma è sempre una norma [fondamentale] (basic) una norma la cui validità non può essere derivata da una norma superiore è…] il fondamento della validità di una norma risiede in un presupposto, in una norma presupposta come ulteriormente valida, cioè in una norma fondamentale» .
Ciò vale a dire che dal punto di vista strettamente giuridico la legge n. 56/2014 è ritenuta dai giudici della Suprema Corte legittima poiché conforme alla «norma fondamentale, alla Costituzione del nostro Paese, la norma più alta [che rappresenta] il fondamento ultimo della validità nell'ambito di un sistema normativo».
Se la decisione della Consulta sia poi una decisione "giusta" ovvero una decisione «[…] effettivamente applicata in tutti i casi in cui, secondo il suo contenuto, questa norma deve venir applicata», giusta nel senso di decisione conforme al diritto, rappresenta una questione su cui i giudici della Corte Costituzionale hanno evidenziato qualche incoerenza di comportamento rispetto ad altre decisioni assunte in materia nel passato.
Infatti, mentre nella Sentenza n. 50/2015 i giudici della Suprema Corte rilevano che la coincidenza tra il territorio della Città metropolitana e quello della Provincia omonima (art. 1, comma 6, legge n. 56/2014) non lede l'art. 133, comma 1, Cost. che delinea il percorso da seguire per l'istituzione di nuove Province e per la modifica delle circoscrizioni provinciali esistenti in quanto la norma invocata riguarda solo singoli interventi, la Corte Costituzionale, in un suo precedente intervento in materia di Province (Sent. n. 220/2013) aveva affermato l'indefettibilità del procedimento di cui all'art. 133, comma 1, Cost., vale a dire il suo non venir meno allorquando si interviene sull'elemento territoriale dell'ente Provincia.
Diverso è il fatto analizzato da un punto di vista metagiuridico che va cioè oltre l'ambito giuridico, atteso che la legge Delrio è stata approvata non solo per presunti o reali risparmi di spesa pubblica, ma anche per garantire, con la semplificazione dei livelli di governance istituzionale e territoriale un assetto organizzativo e funzionale della p.a. più aderente ai canoni di buon andamento di cui all'art. 97 Cost.; principio inteso quale espressione tipica di efficienza pubblica e recepito come strumento destinato a migliorare il rendimento dell'apparato pubblico, in ciò assimilato al criterio di efficienza dell'operato della p.a.
E proprio in relazione ai canoni del buon andamento (forse) la legge n. 56/2014 sconta una serie di difetti che emergono giorno dopo giorno, sul versante della fluida erogazione dei servizi pubblici locali, dell'occupazione del personale delle Province, del riparto di competenze funzionali tra Regioni, Province e Unioni di comuni.
La decisione della Consulta sulla legge Delrio, assunta con la sentenza n. 50/2015 (ferma restando come detto, la riconosciuta costituzionalità della L. n. 56/2014), poteva essere più coraggiosa nelle decisioni assunte, atteso che le Regioni ricorrenti avevano rilevato che tale legge demolisce, in pratica, un principio cardine del nostro ordinamento giuridico ovvero quello democratico che viene meno in un ente, la Provincia, che pure la Costituzione, all'art. 114, comma 1, dispone essere un soggetto costitutivo della Repubblica, oltre ai Comuni, le Città metropolitane, le Regioni e lo Stato; principio democratico che per i giudici della Suprema Corte non viene, però, scalfito dalla mancata previsione legislativa dell'elezione diretta dei rappresentanti nell'istituzione provinciale.
E che dire poi di quanto normato in termini di Città metropolitane ovvero della dicotomia creata dalla legge Delrio tra territori ex provinciali privilegiati (le nove Città metropolitane istituite), nei quali si riverseranno a breve fiumi di risorse finanziarie comunitarie, necessarie allo sviluppo di tali aree vaste e territori provinciali "ordinari" all'interno dei quali si tratterà ancora una volta di "stringere ulteriormente la cinghia" e dove il termine sviluppo appare sempre più una metafora?
Ciò detto ed a parere di chi scrive, conclusivamente, la Sentenza della Corte Costituzionale n. 50/2015, parrebbe essere soprattutto una decisione frutto della volontà di porre al riparo il percorso attuativo della legge Delrio, ad ogni costo, sulla quale il Governo Renzi aveva enfaticamente riposto molta parte della propria credibilità politica.
Lecce 1 Aprile 2015
Prof. Luigino Sergio
già Direttore Generale della Provincia di Lecce
luiginosergio@yahoo.it