di Marina Crisafi - Punta la pistola alla tempia del poliziotto che l'aveva beccato fuori dai domiciliari e fa "bang!". Anche se l'arma è solo "mimata", con l'indice e il medio della mano, è integrato il reato di minaccia. Lo ha stabilito la quinta sezione penale della Cassazione, con la recente sentenza n. 25165/2015, confermando la condanna per il delitto di cui all'art. 612 cpv c.p., nei confronti di un uomo che, denunciato per evasione dagli arresti domiciliari, prometteva "vendetta" agli agenti di polizia che avevano eseguito il controllo, minacciando uno dei due di "sparargli alla testa" e accompagnando le parole con il gesto della mano a mò di pistola puntata alla tempia, aggiungendo altresì che "analogo trattamento avrebbe riservato" all'altro.
Per i giudici è indiscutibile la sussistenza del reato di minaccia, mentre è ritenuta risibile la visione dell'imputato che si doleva della "gravità" attribuita alla propria condotta, in quanto priva "dei connotati tipici della minaccia e - non idonea - ad incutere timore nella persona offesa".
Al contrario, per il Palazzaccio, la lettura del gesto compiuto dall'uomo non dà adito a dubbi, in quanto è condotta "idonea ad integrare la minaccia anche quella consistente in un gesto esplicito idoneo ad ingenerare turbamento psichico al destinatario".
E nel caso di specie, la gravità del male prospettato alla persona offesa poteva essere legittimamente desunta dal gesto esplicito ed "univoco" ascritto all'imputato, accompagnato peraltro "da espressione che confermava la volontà dell'agente di porre in pericolo l'incolumità degli agenti" delle forze dell'ordine.
Ne discende l'inammissibilità del ricorso e l'ovvia conferma della condanna dell'imputato a tre mesi di reclusione, oltre che al pagamento delle spese processuali.